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Ecco come le campagne social (da Mosca?) condizionano la Casa Bianca

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Su Politico, Molly McKew, esperta di information warfare (la guerriglia informatica, attuale e futura frontiera del confronto politico-sociale e delle relazioni internazionali), ha analizzato come diversi bot trumpiani abbiano fatto diventare virale l’hashtag #ReleaseTheMemo e ne ha fatto un caso di studio più generale.

Per i meno assidui dell’argomento: i bot sono account computerizzati che si comportano all’interno di un social network più o meno come persone reali, condividendo argomenti di solito pre-impostati da chi li controlla, e servono principalmente a spingere certe campagne; nel caso, quell’hashtag aveva il compito di creare pressioni sul presidente e alzare polvere sulla necessità che la Casa Bianca rilasciasse un memo redatto dai repubblicani della Commissione Intelligence della Camera (ha preso il nome di “Nunes Memo” proprio dal cognome del capogruppo in commissione, un conservatore alleato di Trump) in cui si tentava di dimostrare che l’Fbi aveva abusato del proprio potere nell’intercettare un collaboratore dell’attuale presidente Donald Trump durante la campagna elettorale.

Quello che ha studiato McKew è molto interessante, per una sommatoria di cose concatenate: primo, è noto che il presidente è molto influenzato dalle posizioni prese dai suoi fan sulle questioni del dibattito pubblico; secondo, è altrettanto noto che molti di quei bot sono gestiti da centri di pressione trumpiani, una sorta di propaganda continuativa garantita sui social network ma anche via radio, o su siti e programmi televisivi; terzo, alcuni di questi bot sono stati catalogati dalle intelligence americane e inseriti nella lista delle azioni di interferenza russa durante le presidenziali (il Russiagate) perché hanno diffuso in modo virale argomentazioni divisive tendenzialmente pro-Trump nell’ambito del piano costruito dal Cremlino.

L’esperta spiega che il voto dell’Intelligence Committee della Camera – che aveva deciso di inviare il report per la pubblicazione allo Studio Ovale nonostante l’Fbi lo sconsigliasse, perché conteneva informazioni riservate sulla tecnica di lavoro dell’agenzia – è arrivato “al culmine di un’operazione di informazione mirata durata 11 giorni che è stata amplificata dalle tecniche di propaganda computazionale, per cercare di modificare sia le percezioni pubbliche che il comportamento dei legislatori americani”. In pratica: centinaia, migliaia di account sui social network hanno iniziato a pubblicare post sulla necessità di rendere pubblico il Nunes Memo (e forse questo ha influenzato i legislatori prima e sostenuto la Casa Bianca).

La “propaganda computazionale” è, secondo il sito del software per le presentazioni Prezi, “l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per manipolare le percezioni, influenzare la cognizione e influenzare il comportamento”. McKew, che guida il team di una società privata che si occupa di intelligence sui social media, dice che comprendere certi meccanismi – certamente intervenuti secondo lo studio nel caso del #ReleaseTheMemo – è fondamentale “per il futuro della democrazia americana”.

Prima di andare avanti, la questione principale: il memo, secondo la visione trumpiana, a cui s’è aggrappato anche il presidente, sarebbe la testimonianza che tutta la faccenda del Russiagate non sta in piedi. Anzi, nella visione più spinta, il memo dimostra che esiste un deep state (una specie di cospirazione da film, fatta di agenzie governative, politici e imprenditori di grido) che veicola le questioni e che ha complottato contro Trump; da qui, dunque, la questione delle interferenze russe alle elezioni andrebbe declassata perché è solo una costruzione collegata a questo piano, di fatto però non riuscito, anti-Trump (va da sé che la storia ha un grande appeal in questo preciso periodo storico, dove i complotti e le cospirazioni fanno audience più della verità). Ecco la necessità della pubblicazione per la presidenza.

Nei giorni scorsi anche il sito Hamilton68.com (progetto lanciato lo scorso anno dal German Marshall Fund’s ‎Alliance for Securing Democracy per monitorare la propaganda russa) aveva segnalato la crescita rapida – e dunque robotizzata – dell’hashtag; e pure i congressisti democratici avevano velocemente inviato una lettera a Facebook e Twitter per segnalare quello che stava accadendo. I Dem hanno abbinato l’hashtag a un’altra espressione dell’interferenza russa, Twitter ha risposto sospendendo alcuni account; le ditte dei social network sono sotto osservazione perché ai tempi delle elezioni del 2016 hanno fatto poco per fermare l’operazioni di ingerenza attraverso la disinformatia studiata da Mosca. Attenzione a proposito: secondo lo studio accademico “Disinformation Warfare: Understanding State-Sponsored Trolls on Twitter and Their Influence on the Web”, redatto da Cyprus University of Technology, University College London, e University of Alabama, l’influenza dei troll russi non è così centrale – lo è più la diffusione di notizie su portali come Russia Today.

Ma nell’analisi McKew fa notare che non è tanto importante comprendere chi sia il responsabile delle attività propagandistiche (anche se in effetti un conto è che sia una campagna politica di un partito americano, o meglio della parte di quel partito che sostiene il presidente, un conto un’interferenza dall’esterno di un altro stato), quanto è invece utile comprendere ciò che è successo nel caso del Nunes Memo, perché è qualcosa che si ripeterà. Ossia, comprendere che spesso quello che gira sui social network da certi account è frutto di un’operazione politica pianificata, e non delle espressioni sane dell’opinione della gente. Lo studio è molto dettagliato, ma basta un esempio (la velocità con cui si è impennata in poche ore la curva di utilizzo dell’hashtag #ReleaseTheMemo) per comprendere come si compie questo genere di propaganda – che normalmente avviene sotto i nostri occhi anche in Italia, su tematiche di attualità che possono creare divisione socio-culturale su argomenti politici scottanti.

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Tutto è partito dall’account @underthemoraine, che ha materialmente twittato per primo #RealeaseTheMemo: secondo le ricostruzioni sembra essere gestito da un vero ragazzo del Michigan (e condivide sempre tematiche strettamente pro-Trump), che però tra i suoi (soli) 74 follower ha diversi bot; alcuni di questi, tra l’altrom sono identificabili tra quelli che Mosca utilizza per questo genere di attività di guerra psicologica. Uno di questi bot, @KARYN19138585, per esempio, è stato registrato nel 2012, ma ha twittato intensamente soltanto dal giugno 2016 (periodo in cui per l’Fbi è iniziata l’attività più intensa di disinformazione e interferenza russa nelle presidenziali), e sempre su argomentazioni divisive – l’odio contro i musulmani, per dirne una – e rilanciando storia fake sul conto di Hillary Clinton; è noto che molti di questi bot abbiano lavorato così, senza esporre direttamente il sostegno a Trump. Dopo le elezioni, KARYN è stato abbandonato, per essere rilanciato successivamente: è, secondo McKew il tipico uso che viene fatto dei bot.

In definitiva, cos’è successo: una persona reale ha creato l’hashtag, poi i robot sui social network hanno fatto il lavoro. Lo hanno rilanciato migliaia di volte, lo hanno resto virale, hanno continuato a condividerlo attraverso il setaccio degli algoritmi a cui sono collegati abbinandolo a notizie simili, hanno creato influenza. Milioni di persone si sono viste passare davanti post contenenti #ReleaseTheMemo, facendo intuire che la maggior parte dei cittadini americani fosse a favore della pubblicazione di quel documento riservato. Così è stato.

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