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Trump sempre più Pacifico. Guarda all’Australia, per contenere la Cina

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Il centrista (conservatore) Sidney Morning Herald la mette così: “Non ci sarà mai un incontro in cui Malcolm Turnbull potrà essere certo che il rapporto dell’Australia con Donald Trump sia in equilibrio”. È un commento sulla visita di pochi giorni fa del premier australiano alla Casa Bianca, a un anno quasi esatto da quando uno dei primi contatti internazionali di Trump neo-presidente si chiuse col telefono dello Studio Ovale sbattuto in faccia al primo ministro australiano.

In quell’occasione il presidente statunitense accusò pubblicamente Turnbull di aver impelagato gli americani nel “peggior accordo possibile” (definizione usata da Trump in più di un’occasione): si trattava del recepimento negli Stati Uniti di poco più di un migliaio di rifugiati che Sydney non riusciva a gestire, e che l’amministrazione Obama aveva accettato nell’ottica di un rapporto di alleanza tra Usa e Australia. Ma forse c’era qualcosa di più.

Trump accusava – e ancora lo fa, anche se con minore assiduità – gli alleati americani di essere sanguisughe che sfruttano l’impegno di Washington dando poco o niente in cambio: aveva anche per questo tirato fuori gli Stati Uniti dai colloqui sul TPP (l’accordo commerciale intra-Pacifico), con una mossa che apparentemente andava a punire questo comportamento nei confronti di partner come l’Australia.

Allo stesso tempo, Turnbull aveva iniziato a intavolare discussioni alternative, secondo il pensiero che quella facilitazione sui flussi commerciali nella regione pacifica è una necessità imprescindibile per gli australiani, e cominciato a pensare su come portare avanti la discussione per la costruzione del network di scambi, magari includendo anche la Cina. Un affronto, praticamente, per un’amministrazione che stava iniziando a muovere i primi passi di quella che adesso è – più concretamente – una contrapposizione a tutto campo a Pechino; da considerare, per altro, che il TPP si basava essenzialmente sulla volontà americana di costruire quella rete di scambi tenendo fuori i cinesi.

In questo quadro, però, l’aiuto australiano – pezzo di quell’anglosfera a cinque occhi del FVEY che Trump avrebbe intenzione di ricompattare anche attraverso il rafforzamento del feeling pro-Brexit con Londra – è imprescindibile. E dall’Australia sono arrivati segnali di allineamento: lo sforzo militare degli australiani all’interno della Coalizione che in Medio Oriente ha combattuto, e continua a combattere, lo Stato islamico è aumentato, per esempio. E Turnbull da mesi sta lavorando discretamente per alleggerire le obiezioni del presidente americano sulle questioni commerciali (rendendosi disponibile a relazioni bilaterali come l’incontro a Washington, pieno di photo-opportunity in cui le due first-family si mostravano sorridenti; momenti che piacciono molto all’artista del deal alla Casa Bianca) al punto che Trump è arrivato a dire che potrebbe anche ripensarci sul TPP, ammesso che sia costruito in modo da essere un “good deal“.

Intanto il governo australiano ha anche accettato la nomina programmatica americana per guidare l’ambasciata statunitense in Australia: la Casa Bianca ha scelto l’ammiraglio Harry Harris, ex capo del comando del Pacifico del Pentagono. Il curriculum di Harris è pieno di stellette, dai master ad Harvard e Georgetown ai 39 anni di servizio (è nato da madre giapponese a Yokosuka, città quasi completamente americanizzata in quanto sede della Settima flotta), ma soprattutto per la Casa Bianca c’è la sua posizione anti-cinese ad aver valore.

A marzo del 2016, piena campagna presidenziale ma ancora era-Obama, fu proprio l’ammiraglio a mostrare apertamente le immagini ai giornalisti del Pentagono le attività di militarizzazione che la Cina stava portando avanti nella regione del Pacifico, e a sottolineare che Pechino non avrebbe dovuto mettere le mani in modo monopolista su quelle acque che valgono 5 trilioni di dollari di affari commerciali. Per certi versi fu proprio lui a iniziare il confronto tra Washington e Pechino, come super-potenze anche militari, di cui in questi mesi si iniziano a concretizzare gli effetti – Harris disse apertamente che la Cina (insieme a Corea del Nord, Russia e Isis) è uno dei nemici degli Stati Uniti.

Harris ha comandato tutte quelle operazioni più o meno discrete, fatte di mosse di scacchi, manovre, esercitazioni, con cui gli americani per lungo tempo hanno mostrato le armi, i muscoli, segnato la loro presenza in quel quadrante. Insomma: l’ambasciatore che Trump ha scelto per l’Australia è un uomo che finora si è occupato di fare deterrenza nei confronti della Cina (prima guidava la Flotta del Pacifico) mostrando a Pechino la potenza americana (anche violando le volontà di Pechino sul Mar Cinese): il volto duro della realpolitik che associa i due paesi, aveva spiegato in un suo ritratto Giulia Pompili, l’esperta di Asia del Foglio. Ora esce dal Pentagono, e i cinesi potrebbero averci guadagnato con un falco anti-Dragone fuori dalle alte sfere della Difesa, ma politicamente Harris avrà come ruolo fare pressioni sull’Australia affinché si allinei alle richieste di Trump (che sono anche quelle di aver una linea anti-Cina nel Pacifico).

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