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Tre milioni di ragioni per cui Trump sta facendo bene in economia

Di Lorenzo Montanari
Trump

È stato un discorso conciliatorio, il primo State of the Union (Sotu) del presidente Donald Trump. È durato più di una ora e venti minuti, tra i più lunghi discorsi dai tempi di Bill Clinton. E il suo tono non è stato certo da Fire and Fury –  per parafrasare l’ultimo e discusso libro di Michael Wolff – ma al contrario pieno di appelli bipartisan sui principali temi caldi della sua amministrazione. Dall’approvazione di un piano d’investimenti da 1500 miliardi di dollari, alla necessità di rinnovare l’esercito americano, fino alla più spinosa delle questioni: la tanto discussa riforma dell’immigrazione. In particolare, sul tanto conteso Deffered Action for Childhood Arrivals (Daca): cioè, la possibilità di ottenere la cittadinanza per oltre 800,000 immigrati arrivati illegalmente negli States quando erano ancora minorenni. Ed è proprio il Daca la keyword di un potenziale compromesso tra Trump e l’opposizione democratica. Un compromesso strategicamente sempre più difficile da non accettare per i democratici Americani, artefici di una fallimentare strategia che ha visto nello shutdown della scorsa settimana la rinascita politica di Trump. Il presidente ha dichiarato dunque di essere pronto non solo a riconoscere gli 800,000 immigrati illegali ma addirittura di regolarizzarne ben 1,8 milioni. In cambio, però, chiede il totale appoggio dei democratici al piano da 25 milioni di dollari per The Wall: il muro da costruire per il blocco definitivo dei flussi clandestini dalla frontiera a sud del Rio Grande.

Il primo Sotu è stato anche per Trump l’occasione di ricordare – con un po’ di retorica – i successi della sua amministrazione: dalla sconfitta dell’Isis agli 8000 miliardi di dollari di capitalizzazione di Wall Street – per non parlare dei più di due milioni di posti di lavoro frutto della netta de-regulation in settori come l’energia e la finanza, fino alla storica riforma delle tasse diventata realtà lo scorso 22 dicembre. Non solo la corporate tax è stata ridotta dal 35% al 21%, ma il sistema di riscossione delle tasse su scala globale è stato sostituito da un sistema territoriale, con la conseguente possibilità di far rientrare i capitali esteri (circa 3000 miliardi di dollari) ad una tassa del 8 % per  “tangible asset” e 15.5 % per “cash”.

Se il messaggio di Trump al World Economic Forum di Davos – il primo di un presidente Americano dopo oltre 18 anni – era stato “America first but not alone”, martedì sera il leit motiv è stato invece “a new American moment”.  Infatti i primi effetti positivi del ritorno della Lafferiana “supply side economics”, incarnata dalla storica riforma delle tasse, si fanno già sentire nelle tasche degli americani. Ad oggi sono più di 300 le imprese americane (piccole, medie e grandi) che hanno elargito bonus e/o aumenti salariali a più di 3.000.000 milioni di americani. Tra gli esempi più eclatanti: i 1000 dollari di bonus a più di 120.000 impiegati dell’American Airlines (esclusi gli executive); i 2500 dollari in azioni per decine di migliaia di impiegati Apple e l’assunzione di oltre 20.000 nuovi profili professionali con un’aggiunta di 30 miliardi di nuovi investimenti; per non menzionare i 2000 dollari di bonus a 60.000 impiegati della Fiat Crysler – oltre al fatto che Fca ha già annunciato che sposterà la produzione dal Messico allo stato del Michighan. E la lista continua con altri big come l’AT&T, con oltre 1000 dollari di bonus per oltre 200.000 impiegati e nuovi investimenti per oltre 1 miliardo di dollari. La lista aggiornata può essere consultata nel sito dell’Americans for Tax Reform.

Se dovessimo giudicare questi primi risultati, della riforma delle tasse di Trump, non potremmo che auguraci un simile cammino anche per l’Italia. Sicuramente la riforma delle tasse del presidente Trump può e deve rappresentare un importante road-map non solo per l’Italia ma anche per l’Europa. Come ricordano gli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera come prima risposta alla riforma fiscale Americana “Ciò che l’Europa invece deve fare è ridurre le imposte su lavoro e profitti e aumentare la produttività. […] Per Paesi, come Francia e Italia, che non hanno spazio per tagliare le tasse — almeno finché non cominceranno seriamente a tagliare le spese, e le promesse che un po’ tutti i partiti italiani stanno facendo in vista delle lezioni non promettono bene — per non perdere investimenti americani e competitività con le esportazioni Usa rimane solo la strada di un aumento di produttività”. Il prossimo 4 marzo si tornerà alle urne e il centro-destra italiano nella sua eterogenea composizione potrà vincere le elezioni solo se sarà in grado di ritrovare la sua unità politica su un programma economico di taglio liberale: con la flat tax (tra il 15% e il 25%) e un taglio drastico della spesa pubblica associato alla riduzione del costo del lavoro come cavalli di battaglia.

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