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Vent’anni senza Ernst Jünger

Venti anni senza Ernst Jünger. Eppure insieme con lui, mai tanto evocato, studiato, pubblicato da quando è morto il 17 febbraio 1998. Una vita lunghissima, la sua, finita a 103 anni, segnata da una ricerca intensa e da una profonda avventura spirituale. È stato l’ultimo “profeta” che non ha avuto la pretesa di annunciare una fede, di fondare una religione, di immaginare una trasmutazione di valori. Profeta dell’impossibile rivoluzione interiore, per tutti e per nessuno, sulle orme di Nietzsche. Dunque, ribelle per vocazione e temperamento. Per convinzione anche, quando di fronte alle “guerre di materiali” scoprì il senso della pace senza rinnegare l’ebbrezza delle “tempeste d’acciaio”. Anticipatore di una “mobilitazione totale” di tipo aristocratico-conservatore, come si conveniva ad uno junker non di nascita, ma di elezione; preconizzatore, inoltre, dell’avvento di un nuovo tipo di lavoratore, tutt’altro che schiavo della macchina, piuttosto motore consapevole di una modernità da indirizzare verso il superamento del determinismo e della schiavitù della tecnica. L’incontro con Heidegger e Schmitt, lo pose al riparo dalle fughe nell’irrealismo; quello con Spengler (mai ravvicinato, puramente epistolare ed intellettuale) lo rafforzò nella opposizione alla decadenza dell’Occidente; quello con Mircea Eliade, forse il più gravido di conseguenze spirituali e religiose che contribuì a tenere accesa dentro di lui la luce del sacro quando le ombre del nichilismo avrebbero potuto inficiarne la percezione. Ebbe l’intelligenza ed il coraggio di cambiare, pur senza rinunciare ai principi. Non si lasciò invischiare nel plebeismo trionfante, ma sopravvisse suggestionando il Forestaro (alias Hitler) ed i suoi seguaci, che pur non lo amavano, memori tuttavia di una “Rivoluzione conservatrice” che non avevano saputo interpretare, assetati di onnipotenza malata e di crudeli ambizioni.

Per quanto i “volti” letterari e filosofici siano stati numerosi – lo prova la sua imponente opera che non finisce mai di sorprenderci – una sola è stata l’anima ispiratrice, quella di un grande aristocratico che ha cercato una “forma” in grado di superare le barriere del materialismo e del nichilismo. Tanto l’autore di In Stahlgevittern (Nelle tempeste d’acciaio), romanzo che lo rivelò come il più brillante giovane scrittore del tempo, quanto l’ “anarco-prussiano” di Das Abenteuerliche Herz (Il cuore avventuroso); tanto il “nazionalbolscevico” che il disincantato “anarca” di Eumeswil e Heliopolis aderiscono ad un’unica visione del mondo e della vita improntata all’eroismo aristocratico, alla realizzazione interiore.

Una prospettiva questa di fronte alla quale crollano i tentativi piuttosto maldestri di collocare Jünger nelle logore categorie del pensiero e della politica. L’ imponente opera dello scrittore dimostra eloquentemente come il suo lungo ed accidentato cammino sia stato nella sola direzione che riteneva possibile: superare la soglia del nichilismo con una presenza attiva sul piano dello spirito che significava, in buona sostanza, “diventare ciò che si è”, secondo il monito di Nietzsche. E perciò, quasi naturalmente, divenne ribelle e anarca cercando di allontanare il rischio del deserto che cresceva in se stesso sottraendosi alle lusinghe ed ai condizionamenti della modernità.

L’eroismo aristocratico di Jünger si è nutrito di una profonda religiosità (negata da molti dei suoi esegeti), quasi mai evidente nelle sue opere. Una religiosità difficilmente definibile nella quale elementi cristiani si sovrapponevano ad elementi pagani con il risultato di un misterioso e poco decifrabile sincretismo che ha fatto convivere Jünger con un altro non meno eccentrico spiritualista che gli fu amico: Mircea Eliade. La rivista che insieme fondarono “Antaios” produsse poter anni spinte tese ad un risveglio spirituale di fronte al quale l’epoca si mostrava chiusa, refrattaria, addirittura ostile, come testimonia l’attuale clima di decadenza nel quale viviamo e così ben descritto dall’autore del Problema di Aladino.

Tutta l’opera jüngeriana è segnata da una profonda spiritualità molto prossima ad una sensibilità religiosa di tipo mediterraneo: un curioso aspetto poco indagato se si considera l’amore dello scrittore per la Sardegna, dove ogni anni trascorreva un periodo di vacanza, in particolare all’Isola di San Pietro, per la Sicilia, la Grecia… Le ultime opere, in particolare, veri e propri elegantissimi esercizi di stile, provano il gusto “ellenico” per la Forma che diventa Sostanza: esempio di spiritualità classica difficilmente comprensibile oggi della quale, in verità, Jünger senmbra non essersi mai curato. Conversando con lui nel 1986 disse: “Mi definisco rerum novarum cupidus. E’ un’abitudine, una bramosia, una voluttà. Ho sempre desiderato il nuovo. Sono un viaggiatore che corre, corre per raggiungere cose che svaniscono come la sera”.

Sapiente e guerriero, Jünger ha raccolto la sua solitudine come fosse un’opera letteraria. Dal tempo delle Tempeste d’acciaio passando per le Scogliere di marmo, fino agli approdi “impolitici” o “metapolitici” del Problema di Aladino , Jünger ha potuto contare sempre e soltanto su una piccola corte di fedeli. Ed anche quando s’impegnò nel movimento di rinnovamento spirituale e culturale tedesco, compreso sotto l’espressione di “Rivoluzione conservatrice”, venne travisato: era un ribelle che cercava di fondare un ordine; forse soltanto Ernst Niekisch poteva diventare il suo eroe. Ma sopraggiunse il Forestaro a portarsi via tutte le illusioni di Jünger, e non solo le sue.

Il secondo dopoguerra scivolò via su di lui con minore passione del primo. Jünger cercò di sistemarsi nel tempo della pace attraversando il conformismo nel tentativo di sconfiggere la paura ed il neo-titanismo. Sarà per questo che una volta s’è descritto come una sentinella oltre la linea del nulla. Con una vaga sensazione che oltre il nulla ci fosse qualcosa. Sensazione che si precisò negli ultimi anni.

Jünger fu evangelico protestante, come da tradizione familiare, ma si convertì al cattolicesimo il 26 settembre 1996 alla fine di lungo e complesso percorso che meriterebbe di essere ricostruito, maturato nel solco di una spiritualità che aveva segnato tutta la sua lunga ed operosa esistenza. Poco prima di morire espresse il desiderio di essere seppellito come gli umili abitanti di quel piccolo villaggio, Wilflingen, in Alta Svevia, che lo aveva accolto dopo la guerra e dove aveva stabilito la sua residenza, nella foresteria del castello degli Stauffenberg, il “rifugio” nel quale in oltre cinquant’anni avrebbe scritto trenta libri, tenuto i suoi straordinari diari, raccolto la sua ricerca di infaticabile entomologo. E così si ricongiunse a quella Chiesa che aveva sempre scrutato con curiosità prima e passione poi.

Oltre ottant’anni di vita intellettuale non sono facili da ricostruire e da riassumere soprattutto quando il protagonista, uomo fuori dagli schemi, ha affrontato i naufragi del Novecento, ha cavalcato le contraddizioni di un tempo ambiguo, ha lottato contro i Titani di un secolo crudele eppure entusiasmante, ha cercato l’eterno tra i rottami dell’effimero. Un’impresa immane. Alla quale si è dedicato, con certosina abnegazione per decenni, riuscendoci magnificamente, Heimo Schwilk, giornalista e scrittore tedesco, che ha tirarato fuori dall’immenso materiale accumulato, selezionato, vivisezionato, interpretato la prima grande biografia dell’autore delle Scogliere di marmo, un volume imponente pubblicato in Italia dall’editrice Effatà: Ernst Junger. Una vita lunga un secolo, nel quale nulla viene dimenticato, dalle opere alle tragedie personali (la più dolorosa soprattutto: la morte in battaglia del figlio Ernstel sulle “scogliere di marmo di Carrara”), dalle esperienze dovute agli avvicinamenti all’acido lisergico alla contemplazione della natura, allo scandaglio delle eresie totalitarie ed ai tanti rapporti intellettuali intessuti tra una guerra e l’altra, tra viaggi ed esplorazioni intime.

Più che un libro, è un monumento a colui che è stato definito il “diarista del XX secolo” e che con il suo lavoro di filosofo, romanziere, saggista ha forse meglio di chiunque altro penetrato nelle pieghe di un tempo nel quale i bagliori delle speranze si sono alternati alle tenebre di storie che hanno ridotto l’umanità a cumuli di macerie. Junger, come si evince dalla biografia di Schwilk, non ha respinto l’epoca in cui gli è toccato in sorte di vivere e di agire, sfidando incomprensioni e ostilità dovute all’ignoranza e ai pregiudizi, ma l’ha accolta immaginando di poter seminare tra le sue distorsioni semi di lucida, implacabile intelligenza senza curarsi di chi avrebbe raccolto i frutti.

Ma negli ultimi vent’anni, la già vasta bibliografia su Jünger che ne evidenzia talvolta gli aspetti meno studiati del suo pensiero e della sua vasta opera, in Italia si è arricchita con un volume collettaneo, ideato e curato da Luigi Iannone, uno dei più acuti interpreti del suo pensiero, pubblicato dall’editore Solfanelli: Ernst Jünger. In esso prende forma, con la forza di ben trenta saggi firmati da autorevoli studiosi di letteratura, filosofia e germanistica, l’universo jungeriano dominato da una profonda e persuasiva critica alla modernità e viene evidenziato il cammino “ribellistico”, del quale s’è detto, intrapreso da Junger fin da giovanissimo e condotto alle estreme conseguenze nella maturità, approdato alla definizione della figura esistenziale, ma anche mitopoietica dell’Anarca, è oggi lo spartiacque tra coloro che aderiscono alla nevrosi della globalizzazione del pensiero e quanti, apparentemente appartati, rivendicano il primato della diversità aderendo a valori che si discostano dall’omologazione culturale e la sottopongono ad una serrata svalutazione. E’ ciò che si rivela nei contributi che Iannone ha messo insieme e che danno di Jünger una connotazione attualissima. E ciò è tanto più vero se lo si considera in rapporto alle involuzioni della democrazia e rispetto agli esiti della crisi spirituale europea. L’abbagliante totalitarismo materialistico, determinista e relativista di fronte al quale lo scrittore tedesco è sempre stato all’opposizione, risulta sbiadito alla luce delle folgoranti intuizioni jungeriane: dalla concezione dell’Operaio a quella “mobilitazione totale” che ha modificato sostanzialmente la considerazione dell’intervento esistenziale, politico, metapolitico, bellico e intellettuale, dalla classificazione della guerra come esaltazione dello spirito alla reinvenzione della pace (in senso tutt’altro che kantiano), dalle costruzioni oniriche della decadenza alle “irradazioni” che illuminano il suo lungo travaglio e costituiscono le metafore del superamento dell’egualitarismo massificante.

Iannone, molto opportunamente, richiama la definizione che meglio rappresenta Junger: “sismografo dell’era della tecnica”, in quanto connessa all’interpretazione della modernità della quale respinge le fantasmagorie sprigionate da un “pensiero negativo” che ha liquidato le libertà sostanziali per omologarle ad un universalismo nel quale sono sparite le differenze e si sono dissolte le “forme”, come le chiamava Gottfried Benn, che racchiudono il decaduto concetto di “umanità”: sacralità, onore, coraggio, comunità e via elencando. La figura dell’Anarca, estrema rappresentazione del rifiuto della modernità da parte di Junger, è la sola abilitata “all’attraversamento del bosco”, cioè della crisi. Non tutti lo compresero, ma anche chi lo aveva avversato, sul finire della sua esistenza si avvicinò a lui con sentimenti di rispetto e anche di gratitudine intuendo che dal suo travaglio poteva scaturire una nuova visone della realtà segnata dalla decadenza.

Al compimento dei suoi cento anni, fu festeggiato da molti insospettabili lettori delle sue opere, a cominciare da Helmut Kohl e da Felipe Gonzales, venne assunto dall’establishment che pure lo aveva criticato riconoscendolo come l’intellettuale pacificatore. François Mitterrand, suo antico ed insospettabile estimatore, dichiarò che il portamento di Junger era “quello di un antico romano, orgoglioso e retto, imperturbabile”. E dire che nel 1918, nelle “tempeste d’acciaio” che avevano squassato l’Europa, si era guadagnato la “Croce di guerra pour le merite” combattendo proprio contro la Francia. Con quella onorificenza volle essere accompagnato nel suo ultimo viaggio, quando le tempeste si erano finalmente placate.

Al momento dell’inumazione nel piccolo cimitero di Wilflingen, inaspettatamente nugoli di api presero a ronzare attorno al tumulo, alle corone di fiori. In qualcuno, il sorprendente fenomeno destò il ricordo delle Api di vetro, uno dei più noti romanzi di Junger. Ricorda Schwilk:”Quando il feretro, due ore dopo, viene calato nella fossa, regna un solenne, assoluto e profondo silenzio, come se la natura si fermasse per rendere l’estremo omaggio ad un autore che per tutta la vita ha studiato tra l’altro proprio i rapporti tra flora e fauna, sottolinenando, nella sua opera l’affratellamento mistico di Io ed Essere nell’attimo eterno”.

Il Waldganger, il Ribelle, aveva trovato la quiete che cercava e meritava. Vent’anni fa, al tramonto di un secolo che aveva attraversato come la Cometa di Halley (una “suggestione” narrata in un libretto di rara bellezza) che lui vide per ben due volte: un privilegio che quasi nessuno ha avuto. Un segno, forse…

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