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Liberiamo Aldo Moro dal “caso Moro”. La riflessione di Agostino Giovagnoli

Di Agostino Giovagnoli
Aldo Moro

Nel quarantesimo anniversario della sua morte molta attenzione è oggi rivolta al “caso Moro” e cioè alle circostanze della sua tragica fine. Ma l’insistenza sulle questioni ancora non chiarite riguardo alla sua fine – ce ne sono indubbiamente molte – rischia di distogliere l’attenzione dalla figura e dall’opera di Aldo Moro. Occorre “liberare” Moro dal “caso Moro” per tornare ad apprezzarne l’opera di regista, architetto, tessitore. Sono state queste, infatti, alcune delle definizioni usate per sottolineare la sua visione e il suo impegno per la costruzione e lo sviluppo del sistema politico. Moro non ha pensato la politica come un mero scontro di forze diverse che lottano per la conquista del potere, ma come costruzione di una casa comune pur nella diversità dei ruoli che le singole parti sono chiamate a svolgere.

Il suo contributo a tale costruzione si è sviluppato in stretta connessione con la sua azione di leader di partito. Potrebbe sembrare una contraddizione. Siamo infatti abituati a pensare che ci sia incompatibilità tra partiti ed istituzioni, tra chi è immerso nella promozione della propria parte politica e chi opera per il bene di tutti. Questa convinzione è stata fortissima, in particolare, nei primi anni novanta, quando si è sviluppata una grande offensiva contro le forze politiche della Prima Repubblica che ha portato all’abbattimento di questa. Ma il forte indebolimento dei partiti che ne è conseguito non ha rafforzato le istituzioni, anzi ha contribuito a renderle più fragili. L’esperienza ci ha insegnato che anche se la democrazia è per gli individui questi da soli non hanno la forza di sostenerla. L’indebolimento dei partiti o addirittura la loro scomparsa, così come l’indebolimento dei corpi intermedi o la loro scomparsa privano la democrazia di energie senza le quali questa non è più in grado di proteggere efficacemente gli individui, specie i più fragili e indifesi.

È proprio su questo terreno che la lezione di Aldo Moro presenta una particolare attualità. Moro infatti è stato un leader di partito, molto convinto del ruolo che la Democrazia cristiana era chiamata a svolgere. Chi ha cercato e cerca anche oggi di separare il Moro leader di partito dal Moro statista deve forzare la documentazione e compiere un’operazione antistorica. Il famoso discorso con cui difese Luigi Gui nel caso Lockeed dichiarando “non ci lasceremo processare sulle piazze” non è stata né una dimostrazione di arroganza né un discorso in difesa di un amico. È stata una convinta rivendicazione del ruolo svolto dalla Dc nel trentennio precedente, “un’opera trentennale, per la quale si [è] realizza[ta] una grande trasformazione morale e politica”. In quell’occasione Moro si era mostrato disposto a riconoscere “eccessi ed errori”, aggiungendo peraltro “in qualche misura inevitabili” in un così grande processo storico, senza difendere ad oltranza tutto e tutti. Per lui infatti, la Dc era più grande dei democristiani (e le vicende successive al 1994 lo hanno confermato ampiamente). In altre parole: Moro difese con piena convinzione e senza incertezze la funzione svolta dalla Democrazia cristiana nella realizzazione della “più alta e la più ampia esperienza di libertà che l’Italia abbia mai vissuto nella sua storia”.  La funzione della Dc, cioè, quale cardine dell’intero sistema politico.

Senza sistema politico, infatti, la democrazia si blocca. Se non c’ è un’architettura complessiva le istituzioni diventano sempre più deboli. Nella Seconda repubblica si è creduto che non fosse necessario costruire un sistema politico compiuto e ci si è affidati alle sole leggi elettorali per regolare tutto (salvo poi attribuire tutte le colpe di ciò che non va all’ultima legge elettorale approvata e chiederne subito un’altra). Ma se i diversi attori politici perseguono soltanto la propria affermazione, la loro lotta è a somma zero. La concorrenzialità tra proposte diverse è infatti virtuosa – anzi è il sale della democrazia – se tali proposte non riguardano solo la propria parte ma il tutto o, meglio, puntano ad affermare il ruolo della propria parte per contribuire alla costruzione del tutto. Più di ogni altro Moro si è applicato per far sì che il suo partito contribuisse all’architettura complessiva, non puntasse cioè alla mera “occupazione del potere”, ma svolgesse al meglio la sua funzione di “partito cardine” (entrambe espressioni di Leopoldo Elia, un grande giurista assai vicino allo statista democristiano).  La Dc oggi non c’è più e farla rinascere è impossibile. Ma la lezione di Moro è ancora valida.

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