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Tutti i movimenti in corso nel Golfo e le ultime mosse di MbS. La ricostruzione di Emanuele Rossi

MBS yemen

Pochi giorni fa, Yusuf bin Alawi bin Abdullah, ministro degli Esteri dell’Oman è partito alla volta di Teheran su un volo di stato discreto decollato dal Seeb International Airport con a bordo la sua schiera di esperti funzionari in guthra. Dialogo per mantenere vivo il buon rapporto con l’Iran, è la spiegazione ufficiale che fa suonare la visita come una sorta di routine, ma forse dietro c’era qualcosa in più.

Se si esclude il Qatar che mantiene vivo il rapporto con la Repubblica islamica più per interesse imprescindibile che per piacere (Doha è azionista di maggioranza dell’immenso giacimento gasifero South Pars, condiviso con Teheran), l’Oman è l’unico paese della Penisola Araba che tiene in piedi relazioni diplomatiche in l’Iran. Ed è l’unico a poterlo fare senza subirne le ripercussioni dai capi geopolitici regionali, i sauditi e gli emiratini, che per esempio hanno fatto pagare l’apertura qatarina all’Iran con l’isolamento iniziato nel giugno scorso.

L’Oman può muoversi così soprattutto perché fa da rappresentante americano per curare le relazioni meno ufficiali, e a volte più profonde – si chiama in gergo back-channel questo genere di diplomazia – con l’Iran. Il giorno prima del viaggio del ministro, a Mascat c’era James Mattis, capo del Pentagono e curatore de facto di quel genere di relazioni diplomatiche dell’amministrazione Trump. Ed è altamente probabile che, in questo momento in cui Washington e Teheran vivono una stagione di confronto/scontro, sia toccato agli omaniti di recapitare un messaggio americano agli ayatollah.

Il contesto è ampio e complicato: gli Stati Uniti, sulla loro linea dura anti-Iran, stanno ricevendo un crescente supporto da parte di alcuni alleati occidentali, come gli iper attivi francesi e i tedeschi che devono recuperare spazio internazionale dopo il vuoto di governo. La scorsa settimana, la Reuters (come raccontato su queste colonne da Marco Orioles) ha fatto uscire una rivelazione secondo cui si starebbe abbozzando un’intesa tra Stati Uniti ed Europa per nuove sanzioni contro Teheran che ne puniscano le attività destabilizzanti nella regione, ma non mettano a repentaglio il Jcpoa (acronimo tecnico inglese dell’accordo sul nucleare, ndr), anzi lo salvino da possibili incursioni dell’amministrazione americana mantenendo però una posizione severe con la repubblica degli ayatollah.

Teheran è accusato di un piano di destabilizzazione politica regionale che passa dal sostegno fornito clandestinamente a partiti/milizia come Hezbollah in Libano e i vari gruppi in Iraq, Siria (dove l’appoggio al regime si è trasformato negli ultimi mesi in occasioni di scontro armato con gli specialisti americani piazzati sul terreno), in Yemen e anche in Afghanistan. Questo articolato piano è il motivo per cui Riad e Abu Dhabi, per mano degli uomini che nei due regni hanno in mano il potere, Mohamed bin Salman e Mohamed bin Zayed, hanno alzato il confronto nella regione contro l’Iran. Un piano programmatico che trova il sostegno di Washington.

Bin Salman in questi giorni sarà a Washington per incontri di alto livello e per trovare sostegno al nuovo corso saudita, le attività assertive regionali e l’ammodernamento del sistema di vita generale del regno (restato per anni nel torpore dello status quo), e anche  – in via meno ufficiale – al piano anti-iraniano: tutte sue strategie. Intervistato da Norah O’Donnell, conduttrice di “60 Minutes” della CBS, l’erede al trono saudita ha prima spiegato con cautela che l’Iran non è un nemico di Riad – che è più forte sotto tutti i punti di vista, sia economicamente che militarmente (il secondo aspetto è altamente discutibile, ndr) – ma poi ha piazzato una bordata offensiva definendo la Guida Suprema iraniana Ali Khamenei “very much likely Hitler”.

Il passaggio sul nazismo ha anhe un richiamo sotto traccia ma non di secondo ordine: questo allineamento anti-iraniano parte da Riad e rimbalza a Washington verso Israele. In questo contesto, infatti, Riad e Tel Aviv si trovano allineati, perché gli israeliani si sentono minacciati dall’Iran (soprattutto sul fronte libanese) e si sono avvicinati anche grazie al lavoro americano: due mondi diversi, opposti e distanti, che trovano in Teheran un nemico che li accomuna e in Washington un alleato comune catalizzatore di questo avvicinamento.

Negli ultimi giorni gli Stati Uniti hanno anche cambiato segretario di Stato, passando dal lento e compassato Rex Tillerson all’ex capo della Cia, Mike Pompeo, considerato un falco anti-ayatollah. Come ha subito segnalato su Facebook Cinzia Bianco, analista italiana tra i migliori esperti di Medio Oriente, uno dei principali ex consiglieri del regnante emiratino nelle ore appena successive all’addio di Tillerson ha scritto su Twitter: “La Storia ricorderà che un paese del Golfo ha giocato un ruolo nel licenziamento di un ministro degli Esteri di una superpotenza e non è una cosa da tutti”.

Ossia, dal Golfo ci si vanta che la sostituzione al dipartimento di Stato sia stata una mossa fatta dall’amministrazione americana per compiacere i regni alleati e in un’ottica di sostegno (anche contro l’Iran): Tillerson e la Casa Bianca erano pesantemente entrati in rotta di collisione sull’isolamento spinto contro il Qatar, con il primo più cauto mentre il presidente s’era buttato dietro alle posizioni degli amici mediorientali. Sempre Bianco ricordava che da quest’estate, sulla scorta di queste posizioni, l’influente e abile ambasciatore emiratino a Washington, Yousuf al Otaiba, esternava più o meno pubblicamente l’idea che la storia del Qatar sarebbe costata il posto a Tillerson “entro gennaio 2018”; s’era sbagliato di poco più di un mese.

Giorgio Cafiero, Ceo della Gulf State Analytics (società internazionale che si occupa di valutare per aziende ed enti la realtà del Golfo), ha scritto in un’analisi su Al Monitor che è vero che i funzionari degli Emirati Arabi vedono il cambiamento al dipartimento di Stato a loro favore, ma è improbabile che Pompeo realizzi tutti i loro sogni anti-iraniani.

Fondamentalmente ancora non è chiara la linea che uscirà da Washington dopo il rimpasto (e forse la visita di MbS scoprirà  qualcosa in più). Si può pensare che almeno per un po’ l’America continuerà a mantenere alta la retorica aggressiva, con qualche frizione in più spinta da Pompeo, ma preserverà i contatti istituzionali segnati insieme agli alleati, e quelli più discreti di Mattis (che cura anche le relazione col Qatar, sede della più grande base mediorientale americana).

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