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Non trasformiamo il caso Cambridge Analytica in una bufala politicamente corretta

Facebook

Il caso Cambridge Analitica, società britannica basata su un’isoletta del Canada guidata da Alexander Nix ( a cui si dovrebbe aggiungere Aggregate IQ, ma pochi sanno di che cosa si tratti), è stato raccontato dalla maggior parte dei media italiani in modo decisamente superficiale. Ciò ha permesso che due semplici verità si rivelassero ai nostri occhi: primo, le roccaforti istituzionali della comunicazione hanno un’idea a dir poco approssimativa del ruolo dei grandi player della rete e del modo in cui fanno business; secondo, l’idea che ne ha la classe politica è ancor più approssimativa, visto che ascoltando le dichiarazioni di molti suoi esponenti si ha l’impressione che termini come big data e cyberspazio rimandino per associazione d’idee alla dimensione fantascientifica di Star Trek.

Eppure le librerie traboccano della saggistica dedicata al web ed ai suoi angoli oscuri. In questo caso sarebbe tornata particolarmente utile la lettura di V.M Schonberger e Kenneth Cukier ( Big Data) o, per virare sul filone apocalittico, ma senza scadere in sciatterie neoluddiste o complottiste, quella di Evgeny Morozov “Internet non salverà il mondo…”. Rimanendo sul suolo patrio, una citazione la meritano Gianni Riotta con il suo “ Il web ci rende liberi? “, il più recente “L’Esperimento” di Jacopo Jacoboni (che a Cambridge Analitica dedica un intero capitolo) e “Disinformazia” di Francesco Nicodemo.

Ma procediamo a piccoli passi. La stampa nazionale racconta che Cambridge Analitica ha rubato i dati di 50 milioni di utenti di Facebook hakerando sostanzialmente i server del social network per poi usare questi dati al fine di influenzare la campagna per le presidenziali americane del 2016. Ma è andata veramente così? Il business dichiarato di Facebook (e di Google, Twitter, Instagram, Whatsapp etc…) consiste nel vendere dati agli inserzionisti: una pratica consolidata, in fondo banale, che contraddistingue ormai molte aziende e di cui, questo sì, forse molti utenti delle piattaforme e app non hanno piena consapevolezza.

Cambridge Analitica è una delle centinaia di società che analizzano dati e sui dati fanno campagne di comunicazione politica. La sua particolarità è quella di applicare ai big data le tecniche della psicometria (una branca della psicologia che si fonda sull’analisi dei dati). Non si tratta di una novità assoluta. Il sistema Ocean, elaborato per la profilazione psicologica e sviluppato da Michel Kosinski (tra i maggiori esperti di psicometria al mondo) intorno agli anni ’80, si fonda sull’assunto che è possibile misurare ogni caratterisica psicologica di una persona attraverso cinque aspetti base: Opennes, conscientiouseness, extra-version, agreeableness, neuroticism.

Prima di andare oltre, dobbiamo però parlare di un terzo soggetto. David Stillwell insegna alla Judge bussiness school di Cambridge, ha sviluppato una app per Facebook del tutto regolare (si chiama MyPersonality) che permette agli utenti di riempire vari questionari psicometrici secondo il metodo Ocean. Grazie alla raccolta di questi dati Kosinski è riuscito a profilare una persona ad un livello di conoscenza pari a quella di un genitore o un amico stretto con appena 70 like. Nel 2014 Kosinski è stato avvicinato da Aleksandr Kogan, che era interessato al suo metodo e voleva accedere al data base di MyPersonality. Qui inizia una spy story informatica che non è questa la sede per raccontare. Fatto sta che questa società, la Scl, Strategic Communication Laboratories, era in realtà un contenitore di tante piccole società che facevano riferimento a Cambridge Analytica. La cui esistenza, senza questo scandalo, sarebbe continuata placidamente nell’ignoranza dei più, confinata al massimo nelle discussioni tra addetti ai lavori.

Va detto però che Cambridge Analytica non ha craccato i dati dei server di Facebook (come qualcuno ha scritto) , ma ha comprato i dati da una terza società che li aveva raccolti direttamente attraverso una app dai profili di circa 50 milioni di utenti del social network di Zuckenberg. Il metodo è lo stesso, perfettamente legale, che impiegano un po’ tutte le app che scarichiamo sui nostri smartphone quando ci chiedono il permesso di accedere alla nostra libreria di foto e ai nostri contatti. Facebook ha bannato Cambridge Analytica non perché vi sia stata una violazione dei dati dei propri utenti, ma semplicemente – e brutalmente – perché su quei dati i soldi li deve fare Facebook. Come andrà a finire? Probabilmente non accadrà nulla, nonostante le furbe aperture di Zuckenberg ad una limitata stretta regolatoria. E tutto proseguirà come prima.

Quanto a noi, dobbiamo entrare nell’ottica (è già tardi!) dell’economia dei dati e dobbiamo imparare che in questa economia tutto è marketing: anche la politica. Perché chi ha i dati alla fine vince. Occorre ricordare, prima che il riflesso pavloviano del “dagli a Trump” si consolidi e diventi verità ufficiale, che il commander in chief dalla chioma catarifrangente non è stato il primo leader a servirsi dei big data. Il suo predecessore, Barack Obama, vanta in questo campo la primogenitura, essendo stato il primo candidato nella storia americana ad usare massicciamente nella sua campagna elettorale le tecniche della profilazione e del microtargeting. In Italia è il partito – non partito della Casaleggio&Associati ad aver battuto sul tempo tutti gli altri. Una volta, lo ha ricordato Jacoboni, i partiti tradizionali combattevano al loro interno per mettere le mani sugli elenchi degli iscritti: controllarli significava controllare l’organizzazione. Ovviamente i dati oggi possono dirci molto di più, non solo sugli iscritti ma sull’insieme dei cittadini elettori. Per questo è fuorviante, quasi inutile, commentare le prese di posizione del M5s su euro, immigrazione, reddito di cittadinanza: non si tratta di tradizionali issue politiche, ma solo di strumenti di marketing basati sul processamento dei dati. Non è importante che siano coerenti con un sistema di valori o un programma politico: è importante che si vendano.

Da questa vicenda possiamo trarre allora alcune conclusioni (semplificando un pò ma non troppo):

  • Non facciamo i fessi: tutti sapevano
  • Ci saranno probabilmente nuove regolamentazioni per Facebook, Google, Twitter ma la tecnologia sarà sempre più veloce di qualsiasi regolamentazione. Detto per inciso, forse sarebbe opportuno chiedersi se il problema può essere affrontato stilando codici e codicilli via via più minuziosi o se non sia più sensato indirizzare gli sforzi altrove, magari agli albori della storia dell’antitrust, sul modello di quanto, dopo molti tormenti, si fece negli Usa nei primi anni del Novecento, a partire dallo Sherman Act, contro le grandi concentrazioni banco – industriali. Che oggi, a paragonarle a Facebook, fanno quasi tenerezza. Dunque, impedire che spadroneggino soggetti tanto grandi da schiacciare qualsiasi concorrenza, se necessario obbligandoli a cedere intere province del loro impero salvando così il mercato (e noi poveri consumatori profilati e targettizzati) in nome del mercato.
  • Tutti noi dovremmo riservare ai nostri dati maggiore attenzione. Purtroppo la reazione più comune ad un avvertimento del genere è una scrollata di spalle, seguita immancabilmente dalla frase: “Tanto non ho nulla da nascondere”. In realtà ce l’hai, ma non lo sai. E la differenza tra te e “loro” è proprio questa: “loro” sanno. Va detto che l’esperienza suggerisce come sfuggire al fascino che i social network esercitano sia difficile: mettere in mostra la nostra vita, i nostri hobby, i nostri viaggi e tutto il resto produce quella gratificazione narcisistica che è il vero doping del XXI secolo. E pazienza se, senza rendercene conto, ci lasciamo manipolare a fini commerciali o elettorali.
  • C’è da sperare che nuove tecnologie come la blockchain decentralizzino la gestione dei dati e l’identità torni ad essere di proprietà di ognuno di noi.
  • La privacty non esiste.
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