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Xi Jinping (e gli altri) ed il dilemma del limite al potere

Di Stefania Tucci
pechino, cina

Nelle ultime settimane i giornali del mondo hanno dato ampio risalto alla riforma cinese che abolisce il termine dei due mandati per il Presidente.  La modifica della carta costituzionale sarà approvata dall’Assemblea Nazionale del Popolo – il Parlamento di Pechino – che inizierà la sua sessione annuale di lavori il prossimo 5 marzo.

Oltre a essere segretario del Partito comunista, presidente della Repubblica popolare e della potentissima Commissione militare centrale, Xi ha collezionato una decina di altri titoli e incarichi, assommando sulla sua persona, addirittura più potere di quello che aveva a suo tempo Mao.

Questo cambiamento monumentale comporta che il leader Xi potrà essere confermato anche dopo la scadenza del secondo termine del 23. Questo limite fu introdotto da Deng Xiaoping nel 1982, nell’ambito del processo di ampie riforme economiche e costituzionali iniziato nel 1978, quando per la prima volta parlò del “socialismo con caratteristiche cinesi”, teoria che mirava a giustificare la transizione dall’economia pianificata, a un’economia aperta al mercato, ma comunque supervisionata dallo stato nelle prospettive macroeconomiche.

Deng fu il cuore e il motore della seconda generazione dei leader del Partito Comunista Cinese. Sotto il suo controllo, la Cina divenne una delle economie dalla crescita più rapida, senza che il partito perdesse il controllo del Paese e lanciò lo slogan “non importa di che colore sia il gatto, l’importante e che acchiappi i topi” che stava a simboleggiare il pragmatismo cinese per cogliere opportunità di crescita per l’intero Paese, all’epoca ancora profondamente  rurale e agricolo.

Ma Deng, pur senza mai esplicitamente criticare Mao, capì che troppo potere ad un solo uomo era un pericolo – alimentando il culto della personalità – e iniziò un processo di decentralizzazione, con l’obiettivo di inserire alcune norme istituzionali, pesi e contrappesi che limitassero e controllassero il Presidente.

Fu così data ampia delega ai governatori delle singole province di attuare i piani di sviluppo secondo le specifiche necessità dei territori da loro amministrati.

Inoltre Deng introdusse il termine dei due mandati per evitare il potere a vita, come quello che aveva goduto Mao, e che, negli ultimi anni, aveva portato ai disastri della Rivoluzione Culturale e della Banda dei Quattro, capeggiata dall’ultima moglie di Mao che, complice anche l’età del marito, manipolò il suo enorme potere a fini personali.

Il decentramento economico e amministrativo attuato da Deng, e mai messo in discussione dai suo successori, ha portato un grande fermento economico anche grazie alla concorrenza che i governatori delle diverse province si facevano tra di loro, per attirare gli investimenti, anche quelli esteri (o estero-vestiti, leggi da Hong Kong o da Taiwan), mediante l’offerta di infrastrutture, fisiche e immateriali, agevolazioni fiscali burocratiche e fiscali.

Questo dinamismo è stato la chiave del successo di regioni come lo Sichuan, con la sua capitale Chengdu, sede di 299 delle 500 aziende della classifica di Fortune. I governatori di ogni regione, in cerca di vanto per un primato, hanno iniziato una vera e propria competizione tra loro e questo ha però comportato, spesso, inefficienze nel raccordo degli investimenti, poteri personali e conseguente corruzione, localismi, potentati vari, che hanno anche fatto pensare a qualcuno di rovesciare il regime centrale.

Tutti ricordiamo il caso di Bo Xilai, segretario del partito di Chongqing, la più estesa del Paese, dove aveva investito nelle infrastrutture, guadagnando sempre più consenso e avviando una grande battaglia contro la criminalità organizzata con metodi populisti e appariscenti, definiti “occidentali” da molti osservatori. Al troppo potere seguì l’accusa di corruzione e la condanna alla pena di morte, successivamente commutata nel carcere a vita.

Tra le priorità di Xi vi è quella, sin dall’inizio del suo mandato, della lotta alla corruzione e agli illeciti finanziari, portata avanti senza indugi anche nei confronti dei leader del partito locali, membri del Poliburò, Principi Rossi (figli della prima generazione di capi rivoluzionari e compagni di Mao), alti membri dell’esercito, capi di SEO (state enterprise company, aziende pubbliche), imprenditori privati.

Xi ha già fatto della pulizia agli abusi il centro della sua politica interna per ridare armonia al Paese, offrendo una campagna di moralizzazione che desse a tutti i cittadini l’idea della sobrietà e del rispetto dei valori tradizionali confuciani, affinché tutti si sentano su un unico treno in marcia verso la stessa meta.

Celebre fu, all’inizio del suo insediamento, il divieto di partecipare per i funzionari pubblici a banchetti ufficiali con troppe pietanze o cibi eccessivamente raffinati, lui, dava l’esempio,  mangiando una semplice zuppa alla maniera dei contadini, così fu emesso l’ordine di non accettare regali costosi o indossare orologi preziosi.

D’altro canto Xi ha avviato una riforma economica molto profonda che ha cambiato il modello di produzione cinese, non più volto solo all’esportazione di beni prodotti grazie ad un basso costo della mano d’opera, ma spingendo per un riequilibrio verso la produzione per il mercato interno e quella di beni ad alto contenuto tecnologico.

Sul versante della tecnologia le aziende cinesi di Alibaba, Baibu, Tencent e Xiaomi sono diventate dei colossi mondiali, che competono globalmente con Amazon, Google, Facebook e Apple.

Anche all’estero Xi ha lanciato una politica di espansione commerciale con “One Belt  One Road”, le nuove Vie della Seta, marittime e terrestri, con faraonici investimenti, in più di 80 paesi,  e con il chiaro messaggio di apertura, in aperto contrasto con l’America, soprattutto quella di Trump, rischiusa in se stessa, con un disimpegno dalle posizioni del passato  in Asia, nel Medio Oriente, e in Europa.

Invece la Cina di Xi offre programmi di sviluppo ai propri partner  con contropartite solo economiche (materie prime nei paesi in via di sviluppo), investimenti e acquisizioni (molto gradite quelle ad alto contenuto tecnologico negli altri), senza imporre il Washington Consensus, anzi sottolineando che la Repubblica Popolare non interferisce nei sistemi di governo dei suoi alleati commerciali, così come non consente a nessuno di esercitare ingerenze o pressioni nei suoi confronti.

Quanto sopra ha reso chiaro agli occhi dei leader occidentali che l’Impero di Mezzo di Xi non intende essere integrato in un mondo così come disegnato nel sistema “Pax Americana”, ma è deciso a giocare il proprio ruolo nelle integrazioni internazionali forte dei suoi 5000 anni di storia e per niente succube ai valori della preminenza dei sistemi democratici di stampo “greco”, basato sul concetto “una persona un voto” (che valeva per i soli cittadini maschi di Atene, escludendo le donne, gli schiavi e i barbari).

Queste considerazioni  si inseriscono in un più ampio movimento mondiale che vede nelle democrazie, in primis in quella americana ma anche in alcuni paesi europei, la prevalenza di leader populisti e al contemporaneo rafforzamento di autocrati in altri paesi, che segnano, spesso, un ritorno al passato (basti pensare alla Turchia di Erdorgan rispetto a quella kamailista,  o ai paesi del Sud del Mediterraneo che, dopo le Primavere Arabe, sono tornati agli “uomini forti”, siano essi militari o civili).

Inoltre, la stessa Europa Unita è governata da burocrati che non sono stati eletti, così come molte delle istituzioni occidentali che tanto influiscono sulle decisioni economiche, con le relative ricadute sociali, quali l’Onu, la World Bank, il FMI, la BCE.

Una possibile chiave di lettura di tutto ciò è che, di fronte al mondo sempre più complesso e interconnesso, con incertezze radicali e fenomeni di continue emergenze (migrazioni, distruzioni di posti di lavo a causa delle nuove tecnologie,  squilibri nella distribuzione della ricchezza, percezioni di estremi cambiamenti climatici), i cittadini preferiscono affidarsi a leader forti, o che lanciano messaggi di “forza” rassicurante, volti a dare a ciascuno la risposta alle proprie paure, salvo poi, dove di vota, cambiare alla tornata successiva dopo che si è costatato che le promesse non sono state mantenute.

Negli Stati Uniti abbiamo visto il fenomeno Trump, espressione di una plutocrazia, come però del resto lo erano anche W. Bush e la Hillary Clinton, entrambi membri di “dinastie” politiche.

In Europa sono forti i sentimenti populisti, con la crescita di partiti e movimenti diversi con connotazioni antisistema e “il popolo” al centro del dibattito o programma elettorale. Certo non ha giovato la gestione delle crisi di Cipro della Grecia da parte dell’Unione Europea e del FMI, che hanno consegnato di fatto la prima alla Russia (per le banche) e la seconda alla Cina (soprattutto per le infrastrutture portuali e ferroviarie), lasciando parte notevole della popolazione con privazioni significative quali il taglio delle  pensioni, degli stipendi, i programmi di istruzione, l’assistenza ospedaliera.

Anche i Paesi europei ricchi, per tutti la Germania della Cancelliera Merkel, soffrono di disaffezione da parte dei votanti per i governi in carica, e tendono a politiche di chiusura ai fenomeni dell’immigrazione o degli impegni internazionali in missioni di pace, e comunque a tutti gli accordi di cooperazione globale.

In Gran Bretagna abbiamo avuto il fenomeno Brexit, con il rifiuto dell’Europa, anche a costo di sacrifici economici per l’intera popolazione.

Quello che appare evidente è la richiesta diffusa di leader forti, autorevoli e, pazienza, se autoritari, che spiega il successo del miliardario Trump, il gradimento elevato di Putin, il rispetto per il nazionalista hindu Modi, l’approvazione che gode Abe e quello di Xi (di cui tutti ricordiamo l’applaudito discorso pro globalizzazione all’apertura di Davos del 2017).

Prima il benessere dei propri cittadini, con conseguenti politiche anti immigrazioni, rispetto da parte dagli altri Stati, iniziative in politica estera dettate da convenienze economiche e prestigio nazionalista.

C’è da sperare che tutti questi uomini che hanno raggiunto un grandissimo potere sappiano autolimitarlo e passare la mano al momento giusto, ricordando quanto hanno fatto Diocleziano e Carlo V, Imperatori di ben più vasti imperi, che si sono ritirati a coltivare le rose o a pregare all’Escorial quando ritennero che la loro missione storica era terminata.

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