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L’Europa (in)difesa. Tutte le mosse di Bruxelles

La democrazia cristiana non c’è più. Ecco perché è tornata. La radiografia di Mannino

“Non vedo una legislatura con una lunga prospettiva. Non la vedo proprio”. E ancora, sugli obiettivi di fondo dei due partiti che hanno vinto le politiche di domenica scorsa: “Sia la Lega che il Movimento 5 Stelle, al di là delle tattiche, hanno lo stesso intento: tornare prestissimo alle urne. Entrambi sono convinti di poter ottenere, pure con l’attuale sistema elettorale, i voti necessari a governare da soli”. Calogero Mannino – per gli amici Lillo – di post elezioni, stalli parlamentari e rimescolamenti del sistema partitico ne ha vissuti numerosi nel corso della sua carriera da dirigente apicale della Democrazia Cristiana prima e dell’Udc dopo: eletto sette volte in Parlamento – sei alla Camera e una al Senato -, ha ricoperto il ruolo di ministro in cinque diversi governi tra gli anni ’80 e ’90. Un profondo conoscitore della politica e dell’Italia che, in questa conversazione con Formiche.net, ha subito voluto mettere le carte in chiaro: “In un quadro così complesso ogni giudizio potrebbe rivelarsi azzardato. Però, ciò detto, un accordo non mi pare affatto vicino. E anche laddove si trovasse, molto difficilmente potrebbe essere di lungo periodo. Lo scenario più probabile è che nell’arco di un anno, un anno e mezzo, si torni al voto. Magari in contemporanea con le europee della primavera 2019”.

Nel frattempo, certo, – ha argomentato Mannino – i partiti sarebbero chiamati ad arrivare a una soluzione di compromesso in modo da dare all’Italia un governo, seppur transitorio, in grado di effettuare i passi necessari dal punto di vista economico e dalla politica estera. Ma è ancora presto: “Questa crisi politica ha ancora molte tossine da smaltire”. D’altronde le elezioni hanno consegnato agli italiani una geografia politica radicalmente trasformata nella quale oggi a prevalere sono due partiti tra loro diversi ma accomunati dallo stesso aspetto di fondo: “I due vincitori – Luigi Di Maio e Matteo Salvini – hanno in comune il netto dissenso nei confronti dell’assetto che ha resistito fino alla passata legislatura. La loro affermazione significa soprattutto che ha prevalso la richiesta di un nuovo sistema politico e di nuove forze politiche”. Un risultato che ha messo a durissima prova il Partito Democratico e Forza Italia, ormai – ad avviso di Mannino – “privi di un reale potere di iniziativa. L’ipotesi del Renzusconi – su cui hanno sempre lavorato – non esiste più”. Ad entrambi non resta che aspettare, con la consapevolezza di aver subito un’Opa ostile le cui conseguenze potrebbero essere profondissime: “Silvio Berlusconi mastica amaro per il sorpasso della Lega ma è un boccone che dovrà deglutire. Il centrodestra ormai si riconosce molto di più nella linea di Salvini. Il Pd, invece, si trova a fronteggiare un partito – i cinquestelle – che è veramente atipico. Non si può sostenere che sia di sinistra. Più che altro direi che rappresenta l’alternativa all’attuale sinistra”.

Dunque – stando alla versione dell’ex ministro Dc – Di Maio e Salvini sarebbero accomunati dallo stesso obiettivo pur tenendo in questa fase di studo un atteggiamento differente: “Salvini è molto più prudente: non sta insistendo per fare il governo. O, meglio, afferma di voler dar vita a un esecutivo di centrodestra pur sapendo che mancano i numeri in tal senso. E in questo modo prova a tenere buono Berlusconi”. E, nel frattempo, ha aperto anche al Pd ma – secondo Mannino – senza alcuna reale volontà di trovare un accordo: “Per Salvini sarebbe un abbraccio mortale. Non farebbe mai questo passo. Solo un’apertura tattica, sicuro che il Pd non possa accettare”. Molto più diretto è apparso invece Di Maio che con forza ha rivendicato per sé l’incarico: “La sua è una richiesta eccessiva perché esclude ogni possibile manovra parlamentare. Ed è rivolta al Quirinale al quale ha inviato un messaggio fin troppo chiaro”.

Ma Di Maio e Salvini – almeno da un certo punto di vista – non potrebbero voler differire il ritorno alle urne per consolidare il loro risultato? In altre parole, è così sicuro che votare di nuovo a stretto giro gli convenga? Non rischierebbero di perdere parte dei consensi ottenuti? A queste domande Mannino ha risposto in modo lapidario: “Alle ultime elezioni si sono spostate masse elettorali che non regrediranno in poche battute. Anzi, nel breve periodo è molto più facile che progrediscano. Questa è la realtà”. L’esempio, a tal proposito, è quello del Pd: “C’è stata una ribellione dei suoi elettori che non rientrerà facilmente. Gli operai del Nord ormai condividono molto di più quanto afferma Salvini. E lo stesso vale per i disoccupati del Sud di cui il Pd si è dimenticato e che ormai guardano al Movimento 5 Stelle”.

In un contesto del genere c’è chi sostiene che il Pd dovrebbe allearsi con i pentastellati per cercare di salvare il salvabile e in qualche modo provare a contaminarli. Ma Mannino è di un’opinione diametralmente opposta: “Se si allea con i cinquestelle sparisce. In teoria il Pd potrebbe sembrare l’arbitro della partito ma così non è. Formalmente potrebbe fare la maggioranza con il centrodestra ma di fatto non può perché i suoi elettori non lo potrebbero accettare. E potrebbe anche fare il governo con i cinquestelle ma il giorno dopo ne verrebbe assorbito”. Una posizione – quella dei dem – che a Mannino ricorda molto quella vissuta in passato dal Psi: “Dopo che alle elezioni del 1948 divenne di minoranza rispetto al Pci, cercò per 25 anni di guadagnare la sua autonomia per diventare il centro del sistema politico tra comunisti e democristiani. Ma l’epilogo di quel processo è stato Bettino Craxi e poi la fine del partito socialista. Sono finiti stritolati. Il Pd con queste elezioni ha preso il posto del Psi”.

A proposito di Craxi, c’è pure chi ha evocato in questa fase il suo primo governo del 1983 quando – a seguito delle elezioni in cui la Dc prese oltre il 32% dei voti – si formò un esecutivo guidato appunto dal leader socialista ma con 15 ministri e oltre 30 sottosegretari democristiani. Tradotto oggi, un governo tra centrosinistra e cinquestelle formato soprattutto da pentastellati ma guidato da una personalità proveniente dal mondo della sinistra e non invisa al Movimento. “È presto per dirlo: questa crisi politica si compone ancora di numerosi passaggi”, ha risposto Mannino. Che poi però ha aggiunto: “In questo senso l’unico nome possibile sarebbe paradossalmente quello di Paolo Gentiloni perché ha un temperamento che garantisce”.

E se Pd e Forza Italia sostenessero entrambi un governo a cinquestelle? “Questa potrebbe essere l’ipotesi alla quale si arriva ma sempre con una prospettiva transitoria e dopo un lungo percorso. È una scelta per cui i cinquestelle potrebbero optare solo dopo che si sia dimostrato che non può esistere una maggioranza senza di loro, che il movimento è l’asse del Parlamento e che – se si forma il governo – serve soltanto ad approvare la nuova legge elettorale o, comunque, a tornare a elezioni in tempi brevi, anche con l’attuale sistema di voto”.

Di sicuro – pare di capire – non è immaginabile, data la composizione del Parlamento, una maggioranza tra cinquestelle e centrodestra. Almeno ad avviso di Mannino: “Non succederà perché entrambi hanno le stesse ragioni di contrasto con il sistema politico. In latino si direbbe ‘similia similibus opponuntur’. Sono troppo simili per stare insieme. Il centrodestra ormai ormai si chiama Lega, lasci stare che Berlusconi ha fatto quasi il 15. Se fosse costretta a una scelta definitiva, la metà dei suoi parlamentari passerebbe con Salvini”. La stessa ragione, in fin dei conti, per cui i due partiti non sarebbero affatto contrari a tornare alle urne rapidamente. Anzi: “È una crisi didattica: ci sono due forze politiche che sono allo stato nascenti. Sì la Lega è da 25 anni che esiste ma un altro partito, assolutamente diverso da quello forgiato da Umberto Bossi“.

Un processo che, in prospettiva, potrebbe portare a una nuova forma di bipolarismo, appunto tra i cinquestelle e la Lega: “Il paradosso è che siamo tornati al proporzionale ma, con quel pasticcio del Rosatellum, abbiamo di nuovo introdotto quanto basta per far tendere comunque il quadro verso il bipolarismo”. Errore che Pd e Forza Italia hanno già pagato caramente: “Berlusconi se l’è fatta fare sotto il naso mentre Matteo Renzi l’ha addirittura voluta quella legge elettorale. Incredibile, ha previsto una correzione maggioritaria pur non avendo il suo partito, di fatto, alleati”. Sarebbe stato più opportuno, almeno nella loro ottica, un proporzionale puro stile Prima Repubblica? “In quel caso, probabilmente, ci sarebbe stata una maggiore gravitazione intorno al centro. Mentre oggi – in virtù del correttivo maggioritario del Rosatellum – la gravitazione è sulle ali, sulle fasce come si direbbe in gergo calcistico. Questa legge elettorale ha polarizzato il quadro politico: c’è un tripolarismo che potrebbe portare a un bipolarismo tendenziale”. Né, a questo punto, sembra che ci siano troppi spazi per cambiare la legge elettorale, certamente non nel senso di una maggiore proporzionalizzazione: “Non mi pare ci siano molti margini perché la legge elettorale possa essere riformata di nuovo”.

Ma un democristiano doc come Mannino cosa ne pensa della teoria che accomuna in qualche modo i pentastellati alla vecchia Balena Bianca? “Democristiani non ce ne possono essere più, gli unici veri rimasti sono quelli che hanno partecipato alla stagione di Aldo Moro. Per esserlo davvero bisogna aver partecipato a quel percorso formativo convergente che si chiamava Azione Cattolica. Da cui venivano, oltre a Moro, Giulio AndreottiEmilio Colombo, Mariano Rumor e tantissimi altri. Fino agli ultimi giovani tra i quali mi annovero io”. Eppure il Movimento 5 Stelle è in grado di pescare voti sia a destra che a sinistra. Come appunto la Dc: “Ma ciò accade perché sono cadute le delimitazioni politiche e storiche del passato. Destra e sinistra non ci sono più. Gli operai non si riconoscono più nel partito della sinistra in cachemire. E Salvini ha successo non solo e non tanto perché dice cose di destra ma perché incarna una tendenza antisistema. È questa la componente fondamentale della Lega così come dei cinquestelle”.

Intanto però oggi Di Maio, in un post pubblicato sul blog del movimento (consultabile qui), ha fatto esplicito riferimento ad Alcide De Gasperi e alla dottrina sociale della Chiesa. Qualcosa vorrà pur dire: “Non mi sorprende affatto. Di fronte allo smarrimento di questa stagione non si può non andare a quella esperienza nella quale le identità riuscivano a confrontarsi. De Gasperi seppe fare il governo con Palmiro Toglatti. E’ naturale che si richiami a quegli anni per trovare una soluzione. In fondo siamo tutti democristiani perché nessuno è più democristiano. Guardi il Pd: cita sempre Antonio Gramsci ma poi nella difficoltà è alle esperienze di De Gasperi e Moro che guarda”.

E del politico Di Maio Mannino cosa ne pensa? “Non voglio parlarne né bene né male. Prendo atto che ha vinto perché ha saputo interpretare i sentimenti, le opinioni e le convinzioni degli elettori. Li ha messi insieme. Ha sintetizzato ciò che aveva fatto il fondatore”. Rispetto al quale appare anche molto più rassicurante, tanto da aver richiamato sul movimento pure il voto di una parte di quella borghesia medio-alta che nel 2013 scelse di posizionarsi altrove: “Ma io faccio fatica a parlarne senza citare Alessandro Di Battista. Di Maio è più rassicurante anche in virtù del rapporto dialettico creato con lui. Di Battista è l’uomo che batte, che picchia e Di Maio è l’uomo che fila, che cuce. Hanno fatto un gioco in tandem davvero brillante”.

Nel frattempo, domani, il Pd inizierà a capire il suo futuro almeno a breve termine con le dimissione annunciate di Renzi: “Gli do un consiglio: si dimostri saggio. Si ricordi di quando Amintore Fanfani, nel febbraio 1959, alla Domus Mariae perdette tutto: la presidenza del consiglio, il ministero degli Esteri, la segreteria del partito. Al governo andò Antonio Segni mentre Moro, da segretario Dc, lavorò al recupero di Fanfani che infatti tornò. Renzi non è più il rottamatore, sia paziente e saggio e da leader politico, ma per ora in disparte, continui a lavorare per preservare il Pd. Un’operazione difficilissima”. Per la scelta del suo successore, invece, su chi dovrebbe puntare il partito? “Nonostante il disastro, il Pd ha vinto le elezioni regionali con un candidato che viene dalla storia del Pci ma che, per così dire, non è un comunista di lunga ascendenza. Un post-berlingueriano. Se io fossi in quel partito, giocherei quella carta”. La carta di Nicola Zingaretti.

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