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Donne in Parlamento? Sempre troppo poche

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Ritengo importante una lucida riflessione sulla presenza delle donne nelle istituzioni politiche e più in generale nei “luoghi dove si decide” sulla base di un’idea di “democrazia paritaria”, “pari opportunità”, adempimento del mandato costituzionale contro le discriminazioni, senza schiacciarlo dentro al rapporto uomo-donna ancora visto come “questione femminile”.

Voglio comunque precisare che le signore possono portare cambiamenti a regole, linguaggi, modi, tempi, strutture di potere, che sono state create in assenza delle donne, funzionali perciò a un sesso solo, fondate sulla divisione tra ciò che è politico e ciò che “non è politico” – tra cittadino e persona, sfera pubblica e vita privata -, cioè su confini che sono saltati da tempo. Le difficoltà cominciano in quella anticamera del Parlamento o dei Consigli regionali, provinciali, comunali, che sono i partiti, nonostante il loro declino da molto tempo. La tendenza “all’inclusione”, non si nega che sia soprattutto il risultato delle lotte delle donne. Ma, nella forma in cui si manifesta, risponde visibilmente anche alla necessità di un sistema politico ed economico, di un modello di sviluppo e di civiltà in crisi, bisognoso di risorse meno usurate: donne, giovani, e, meglio ancora donne giovani, possibilmente di aspetto gradevole. Ma diciamocelo senza vittimizzare: le donne sono state sistematicamente discriminate nell’accesso ai ruoli apicali di ogni settore professionale e allora misure antidiscriminatorie sono ancora fortemente necessarie per garantire un loro diritto. Si tratta di una questione di funzionalità dell’organo. Infatti, “Organi squilibrati nella rappresentanza di genere (…) risultano (…) potenzialmente carenti sul piano della funzionalità, perché sprovvisti dell’apporto collaborativo del genere non adeguatamente rappresentato”. “Soltanto l’equilibrata rappresentanza di entrambi i sessi in seno agli organi amministrativi, specie se di vertice e di spiccata caratterizzazione politica, garantisce l’acquisizione al modus operandi dell’ente, e quindi alla sua concreta azione amministrativa, di tutto quel patrimonio, umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità del genere” (posizione assunta dal Tar Lazio, sentenza n. 6673 del 2011).

Infine, è da segnalare “La discriminazione verso il genere femminile nella vita civile rappresenta una diseconomia, perché comporta la rinuncia a metà delle risorse disponibili” (posizione assunta dal Consiglio di Stato, Parere n. 1801 del 2014). Dunque partiamo dalla constatazione che la bassa presenza di donne incide negativamente sulla qualità dell’organo decisionale. Un Parlamento formato per lo più da uomini, soprattutto quando chiamato a decidere su temi importanti, lo fa carente della sensibilità, del punto di vista, del modo di pensare e discutere di entrambi i sessi. Una discriminazione ai danni delle donne è una discriminazione ai danni di una fetta consistente della società (la metà) e dunque una discriminazione che produce diseconomia, privando gli organi decisionali delle competenze di cui sicuramente sarebbero portatrici moltissime donne ancora lasciate ai margini. A mala pena oggi le signore hanno raggiunto il tetto del 30% in Parlamento, i governi non ancora paritari e anche gli organi esecutivi delle Regioni si stanno avviando faticosamente verso una composizione rispettosa dell’equilibrio di genere. Grazie alle riforme costituzionali, agli interventi legislativi, alle interpretazioni giurisprudenziali dei giudici comuni e della Corte costituzionale; grazie alle battaglie delle donne e delle associazioni, ma con poca sensibilità nuova da parte dei partiti politici , comunque la situazione femminile all’interno delle istituzioni è migliorata negli ultimi anni.

I parlamentari che, ormai quasi quindici anni fa, avevano approvato la riforma dell’art. 51 della Costituzione, avevano messo ben in luce come i nuovi principi costituzionali non potessero costituire un semplice “punto di arrivo”, semmai un “punto di partenza”. Occorreva, infatti, l’impegno del legislatore e del mondo politico per evitare il rischio che la riforma rimanesse lettera morta. Un passo quindi è stato fatto, ma anche questi sforzi non possono rappresentare un “punto di arrivo”. Anzitutto, bisogna sempre ricordare che le norme non bastano, e che per promuovere una parità effettiva il cambiamento “formale” deve essere accompagnato da un processo “culturale” e “sostanziale”. Ciò è dimostrato, per esempio, dall’esperienza delle Regioni dove, nonostante la diffusa presenza di norme antidiscriminatorie, le donne elette nei Consigli regionali sono ancora molto poche. Persistono evidentemente degli ostacoli di tipo culturale e sociale che portano gli elettori, ma anche le elettrici, a preferire candidati uomini. Inoltre, la situazione attuale deve essere valutata anche alla luce dell’incidenza della presenza femminile nelle Assemblee elettive e, in generale, nei luoghi decisionali, rispetto ai contenuti della politica.

Ci si deve cioè con molta onestà domandare se la “politica al femminile” sia riuscita ad apportare un incremento della qualità della decisione parlamentare. Le donne non devono essere presenti in Parlamento per rappresentare le donne: sarebbe pertanto sbagliato svolgere questa valutazione guardando unicamente all’incidenza che ha avuto l’incremento della componente femminile in Parlamento sui “temi femminili”. È vero che se la competenza di una donna in politica non si esaurisce di certo nei suoi sforzi per migliorare la condizione della donna nella società, in presenza di una più consistente compagine femminile in Parlamento questo miglioramento non può però non esserci. Molto c’è da fare.

I dati sulla natalità, rivelano ancora una volta la fatica delle donne lavoratrici a costruirsi una vita familiare piena (nel 2017 i nati sono stati ben il 16% in meno rispetto al 2008); ma si pensi ancora al gap nelle retribuzioni (una ricerca condotta da OD &M Consulting – conferma che, su un campione di 380mila lavoratori del settore privato, gli stipendi delle donne soffrono uno scarto considerevole rispetto agli stipendi degli uomini. Il gap è del 12,7% per la categoria degli operati, del 7,2% per i quadri). E ancora, si pensi allo squilibrio di genere esistente nella categoria dei dirigenti d’azienda. Nonostante la legge n. 120 del 2011 abbia riequilibrato la composizione dei cda nelle società, poco o nulla è accaduto con riferimento alle fasce immediatamente inferiori, quelle appunto dei dirigenti. Ma non basta la ratifica della Convenzione di Istanbul contro la violenza, la costruzione di un Inter-gruppo parlamentare per le donne, l’approvazione di disposizioni in materia di sicurezza e contrasto alla violenza di genere, norme sul telelavoro nella pubblica amministrazione con la Legge Madia), manca ancora il vero e proprio “salto di qualità” che ci si attenderebbe in considerazione dell’incremento della presenza di donne nei luoghi della decisione.

Gli sforzi ad oggi profusi non sono ancora soddisfacenti. Leggiamo i dati delle recenti elezioni che parlano da soli. Alla Camera entrano 210 donne su un totale di 630 deputati, il 33%; al Senato ne entrano 107 su 315 senatori eletti, il 34 %.Nel 2013 alla Camera le donne costituivano il 31%, mentre al Senato erano il 29%.I miglioramenti sono davvero minimi. Ci aspettavamo risultati migliori perché il Rosatellum prevede espressamente strumenti per promuovere la parità di genere.I dati migliorano se si considerano solo gli eletti all’uninominale: alla Camera entrano 83 donne su un totale di 232 deputati (36 per cento) eletti col sistema maggioritario. Al Senato entrano 45 donne su 116 eletti (39 per cento).Per quanto riguarda la composizione rispetto al partito risulta che nel centrodestra, le donne sono il 30,5 per cento alla Camera e il 31,8 al Senato. Nel Movimento 5 stelle, le donne sono il 41,6 % alla Camera e il 38,4 al Senato. Per il centro-sinistra le donne sono il 30,6 % dei deputati e il 33,9 % dei senatori. Su base regionale, i dati sono diversi tra i due rami del Parlamento: al Senato è il Centro a eleggere più donne, mentre alla Camera ne elegge di più il Sud. Il Nord presenta quote molto simili sia alla Camera che al Senato. Nel Lazio sono state elette 16 donne su 50 consiglieri, il 32 %. In Lombardia elette 18 donne su 80, un drammatico 22 % .

Il demenziale Rosatellum prevede l’alternanza di genere nelle liste di partiti e collegi, una misura che avrebbe dovuto garantire una rappresentanza di donne non inferiore al 40 per cento alla Camera e al Senato. La nuova orribile legge prevede infatti che nelle liste dei collegi plurinominali i candidati devono essere collocati secondo un ordine alternato di genere. Alla Camera nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento nel totale dei collegi uninominali, inoltre nessuno dei due generi può occupare la posizione di capolista nei collegi plurinominali in misura superiore al 60 per cento. Al Senato le stesse norme valgono a livello regionale. Questo sistema, inficiato da un lato con l’esistenza di collegi elettorali “più o meno certi” e dall’altro con le candidature multiple, ha dato luogo a una elusione della legge sulle “quote rosa”. I partiti hanno ovviato all’alternanza di genere candidando le stesse donne su liste diverse. E le donne hanno accettato! Così le candidate sono state “spalmate” in più collegi mantenendo nella realtà al di sotto del 40 per cento la quota delle candidate. Le pluricandidature femminili sembravano vantaggiose ma da subito ho segnalato che nella realtà il sistema si poteva trasformare, come poi è avvenuto, in un boomerang per le donne. Con questo sistema infatti le donne devono necessariamente risultare elette in un solo collegio e in caso di vittoria in più collegi, devono lasciare automaticamente il posto a chi le segue nella lista, che per legge è un uomo.

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