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L’Italia del dopo voto tenga stretto il filo rosso dell’identità nazionale

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Sono due Italie quelle uscite dalle ultime elezioni. Due Italie distinte, addirittura contrapposte. Riflessi di due blocchi sociali che si guardano in cagnesco. Nel centro nord, che si è dipinto di azzurro, secondo le cartine più volte comparse in tv, è prevalsa la protesta contro uno Stato centrale arruffone e disordinato. Che scarica sui ceti produttivi il costo delle sue inefficienze, sotto forma di un prelievo fiscale eccessivo, che frena ogni voglia di fare. E si traduce in un trasferimento ritenuto indebito verso impieghi poco commendevoli. Per fortuna, il blocco delle attività produttive non si è verificato. Ma solo grazie all’impegno di pugno di imprese costrette a competere sui mercati internazionali con una gamba legata. In grado, comunque, di far valere le buone ragioni di “un’Italia che resiste”: per riprendere le parole di una bella canzone di Francesco De Gregori.

Nel Mezzogiorno, invece, dove prevale il color giallo, la protesta è stata contro condizioni di vita fin troppo distanti da una normalità, mai conquistata. Qui regna la precarietà e livelli di disoccupazione che sono quasi il doppio rispetto alle regioni più favorite. Dove soprattutto i giovani hanno meno prospettive e meno futuro. E la stessa speranza di vita, nelle sue determinazioni statistiche, ha un valore inferiore. In questo lembo di terra, per antica tradizione, non esiste né lo Stato, né, tanto meno, il mercato. Ma solo un groviglio di interessi, che non è facile classificare. Se non altro per il peso delle organizzazioni criminali, di cui si mormora un ruolo comunque lo abbiano avuto nell’indirizzare fette consistenti dell’elettorato. Dove l’assistenzialismo è, da sempre, la risorsa principale della povera gente. Pronta a credere a chi ne promette un’estensione generalizzata, grazie alle lusinghe del “salario di cittadinanza”.

Queste quindi le due Italie che si fronteggiano. E che, per la primavolta, in 150 anni di storia, mettono in pericolo la stessa unità nazionale. Un paradosso nel paradosso, se si considera l’uso e l’abuso che, in questa campagna elettorale, si è fatto del richiamo ad una ritrovata sovranità nazionale, quale parola d’ordine essenziale di un nuovo corso. Esigenza legittima in un contesto europeo segnato dal prevalere di un asse politico, caratterizzato da una sintonia, tra la Germania e la Francia, che sembra voler escludere chi rimane indietro. Una parte rilevante dell’elettorato italiano ha, comunque, rifiutato questa prospettiva, chiudendosi in un “particulare” (Guicciardini) sociologico. Ma il problema non solo resta. Rischia addirittura di aggravarsi in un contesto, quale quello che sembra prevalere a Bruxelles. È solo di qualche ora fa il monito di Valdis Dombrovskis sulla persistenza di eccessivi squilibri macroeconomici nella situazione italiana: debito, bassa crescita e produttività. Quasi un assaggio di ciò che potrebbe derivare in assenza di un governo autorevole e non in grado di misurarsi, senza velleitarie fughe in avanti, con una realtà internazionale complessa e contraddittoria. E far valere le ragioni generali che giustificano una diversa impostazione.

Spetterà quindi al Presidente della Repubblica, nell’esercizio delle sue prerogative costituzionali e come garante dell’unità nazionale (articolo 87, comma 1), tener conto di quest’elemento nella gestione del dopo voto. L’Italia sembra essere a un bivio, in cui tutto può succedere. Né vale consolarsi con il refrain: “È la democrazia, bellezza!”. Avrà anche ragione Sergio Marchionne quando rassicura: “Ne abbiamo viste di peggio”. Ma anche nei momenti più difficili della nostra storia nazionale, anche quando la dura contrapposizione della Guerra fredda sembrava schiacciarci, pur con mille contraddizioni e tentennamenti, il filo rosso dell’identità nazionale ha tenuto banco. Ed evitato l’approdo verso una crisi di carattere istituzionale in grado di determinare una frattura insanabile in una comunità che ha avuto la forza di riconoscersi in valori non negoziabili. Speriamo solo che questo possa nuovamente accadere. E ci consenta, quando tutto sarà finito, di poter tirare, anche questa volta, un sospiro di sollievo.

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