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Perché il fenomeno Nimby blocca lo sviluppo dell’Italia

Nimby

Il nostro Paese non è mai stato culla dell’industrializzazione. Con una certa malizia lo storico Dannis Mach Smith ha potuto dire che il Meridione agli inizi del secolo scorso era ancora a un livello di arretratezza medievale.

È anche in ragione di questo gap economico che uno dei punti decisivi dell’ideologia fascista fu l’industrializzazione autoritaria e la creazione dello Stato-imprenditore, concezione che è stata ereditata poi negli anni della ricostruzione post-bellica dai governi della Repubblica.

Il miracolo economico (1958-63) è stato il punto di arrivo più alto di un’idea volontarista della produzione economica nazionale, molto bene teorizzata da Pasquale Saraceno, la quale implicava l’utilizzo ex ante della leva statale per permettere ex post alle imprese private di prosperare e creare lavoro. Solo così si comprende la nazionalizzazione elettrica o la creazione di infrastrutture come l’Autostrada del Sole, ancora oggi alla base della nostra prosperità economica.

Già allora, però, si è manifestata una forte resistenza di tipo localistico e psicologico a immaginare, come spiegava Felice Ippolito nel La Politica del Cnen (1963), il Bel Paese non soltanto come territorio, ma anche come popolo economicamente potente e autosufficiente.

Amintore Fanfani, nella sua Economia (volume uscito nel 1953), ha ben illustrato tale ostilità alla modernizzazione, usando la parola naturalismo: “La natura agevola l’uomo, fornendogli condizioni vantaggiose per produrre ricchezza; ma essa con le sue resistenze impone all’uomo determinati limiti o condizioni di sviluppo della sua attività”.

Si può dire che l’odierno fenomeno Nimby, ossia le proteste che le comunità locali fanno contro opere e attività di interesse pubblico, siano la radicalizzazione politica della cultura naturalista contro le finalità volontarie e industriali del Paese. E sappiamo bene quanto questo fenomeno si sia trasformato in una vera impasse contro i piani energetici e infrastrutturali: ad esempio le battaglie antinucleari e i No Tav. Adesso, più che mai, si deve rispondere però a queste negazioni pregiudiziali dello sviluppo industriale, tenendo presente due presupposti etici: in primis il carattere “naturale” per l’uomo del lavoro volontario e dell’economia; in secundis il valore della tutela ambientale.

Rispettare la materia non significa ridurre l’uomo a un essere inoperoso o farlo tornare allo stadio pre-industriale; vuol dire semmai che l’armonia tra l’uomo e la Terra concerne direttamente la sua volontà razionale di realizzare se stesso senza distrugge l’ecosistema, producendo, in modo ordinato, ricchezza, sviluppo tecnologico e industria verde.

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