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Matteo Salvini e la nuova mappa della destra, fra Giorgia Meloni e Roberto Maroni

Matteo Salvini, Giorgia Meloni

Cosa vorranno fare da grandi Matteo Salvini e Giorgia Meloni? I due rappresentanti della destra in queste elezioni si giocano molto del loro futuro politico. Per Salvini si profila la possibilità di un sorpasso nei confronti di Forza Italia e comunque di tornare al governo in una posizione di notevole forza rispetto alla Lega del passato. Tanto da aver già prenotato il posto da ministro dell’Economia per Giancarlo Giorgetti. Ruolo che ai tempi dell’asse Bossi-Berlusconi spettava per diritto divino a Giulio Tremonti. Insomma, anche se non dovesse avvenire il sorpasso (ma diversi sondaggisti non lo escludono), il Carroccio 2.0 è pronto a entrare al governo in una posizione dominante. E lo farà pesare.

Anche Meloni si gioca molto. Innanzitutto, insieme a Beatrice Lorenzin, è l’unica donna candidata alla poltrona di Palazzo Chigi. Inoltre, con il suo partito, è l’unica erede di quello che fu l’Msi, prima, e Alleanza nazionale, poi. Ovvero la tradizione della destra italiana, che sembrava finita dopo l’uscita di scena di Gianfranco Fini con il mesto risultato di Futuro e Libertà nel 2013. L’elettorato in buona parte è stato ceduto alla Lega, ma esiste ancora uno zoccolo duro del 5-6%, ed è su quei voti, e sul loro corrispettivo in seggi, che Giorgia conta per avere quanta più forza possibile all’interno di un’alleanza in cui è costretta a fare da terzo incomodo.

Con Salvini il rapporto dovrebbe essere buono, in realtà non lo è affatto. Per due motivi: innanzitutto Meloni, La Russa e Rampelli considerano il leader leghista una sorta di usurpatore dei voti della destra che, secondo loro, prima o poi dovranno tornare alla casa madre. In secondo luogo, anche se Salvini ha sterzato il suo movimento in chiave nazionale mettendo in soffitta secessione e federalismo, non è facile cancellare d’un botto anni di polemiche tra un partito che ha sempre messo il Nord davanti a tutto e una forza politica storicamente nazionale e a trazione elettorale centro-sudista. Lo scontro andato in scena tra i due durante il voto in Lombardia e Veneto sui referendum autonomisti la dice lunga su queste crepe ancora esistenti. Insomma, in Fdi resta sempre un filo di sospetto verso la Lega. Non ci si fida fino in fondo: le sparate nordiste contro il Sud e Roma ladrona non sono state dimenticate del tutto.

Detto questo, tra i due ci sono comunque tanti punti in comune, dalle critiche all’Unione Europea alla lotta all’immigrazione fino alla battaglia contro il renzismo. Meloni e Salvini sono comunque costretti a stare insieme. Da una parte per fare fronte comune nei confronti dello strapotere berlusconiano e dell’ingordigia di posti delle sue truppe; dall’altro per porre un argine all’avanzata dei piccoli partiti di destra estrema come Casa Pound e Forza Nuova. Quanto riuscirà a raggranellare il movimento di Luca Iannone e Simone Di Stefano sarà un dato interessante, per poi capire quei voti da dove vengono, se arrivano dall’astensione o se verranno rosicchiati all’elettorato di Lega e Fdi.

Meloni in questa tornata elettorale è però stata abile ad arginare suoi ex campari di partito che le remavano contro: Alemanno e Storace, infatti, hanno fondato un movimento sovranista che nel centrosud strizzava l’occhio alla Lega, giocando di sponda con il partito di Salvini. L’uscita di scena di Alemanno ha però lasciato Storace da solo, quindi il loro progetto può dirsi fallito. Insomma, Meloni alla sua destra dovrà temere solo Forza Nuova e Casa Pound, non pezzi di ex An di ritorno.

Per Salvini, invece, la situazione è più complicata e il nemico ha un nome e un cognome: Roberto Maroni. L’ex governatore ha dichiarato guerra al segretario e si muove come se fosse già con due piedi fuori dal partito padano. Cosa che sarebbe assai gradita al giovane segretario, che così si toglierebbe un bubbone, ma che non avverrà. I boatos leghisti, infatti, raccontano che Maroni, subito dopo le elezioni, tornerà a dare battaglia nel partito lavorando alla costruzione di una corrente alternativa dal leader con lo slogan di Prima il Nord, raggruppando quei leghisti che considerano la svolta nazionale un tradimento. Lo stesso Umberto Bossi la pensa così. Al momento Maroni può contrare su truppe risicate, ma lo spartiacque sarà proprio il voto: se la Lega non dovesse andare oltre il 12%, nella pancia del partito verrebbe considerato un fallimento e le flebili voci critiche saranno destinate a rafforzarsi e a farsi sentire, guidate proprio dall’ex governatore lombardo. Maroni uomo di partito non è mai stato e questo per lui sarà un banco di prova importante. A meno che – e questa è un’altra cattiveria che circola in Lega – Salvini non decida “istituzionalizzare il dissenso” concedendo a Maroni un ruolo di primo piano nel futuro esecutivo di centrodestra. Ipotesi tutt’altro che peregrina, si sussurra dalle parti di Via Bellerio.

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