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Perché l’accordo sull’autonomia delle Regioni del nord conta

Di Guendalina Dainelli
autonomia

C’è da scommettere che non siano tanti gli italiani che si sono accorti di quanto accaduto oggi. Niente a che vedere con i disagi ferroviari e con le invettive del ministro Delrio contro il gruppo Fs. Il governo Gentiloni ha firmato l’accordo preliminare con le regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, per l’attribuzione di maggiori forme di autonomia (differenziata) su importanti materie che toccano la pelle di quasi 20 milioni di cittadini in tutto, materie quali la tutela del lavoro, la tutela della salute, l’istruzione e l’ambiente.

È un primo passo, ma in questi giorni, con la neve che imbianca molte regioni, è un passo che lascia un’impronta. A 17 anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione italiana, se l’accordo si tradurrà in un’intesa, e se il prossimo Parlamento riuscirà ad approvarla con legge dello Stato a maggioranza assoluta, quanto formalmente concesso dalla Carta si appresta a diventare realtà. Ne trarrebbero indubbi benefici le regioni che si sono sedute al tavolo con il governo. Ne gioverebbe la macchina amministrativa del Paese nel suo complesso. Altre regioni, che già si dichiarano pronte ad accodarsi alle prime tre, saranno meno intimidite dall’esplorazione di un terreno fino a pochi mesi fa completamente sconosciuto.

Ora, i sostenitori del referendum sull’autonomia ritengono che senza il passaggio alle urne di veneti e lombardi, nell’ottobre scorso, non si sarebbe ottenuto questo primo parziale risultato. L’esempio dell’Emilia Romagna dimostra invece che non è così: la risoluzione del Consiglio regionale, come negli altri casi, è stata, di fatto, la condizione sufficiente ma necessaria per il confronto. Quando, dopo il 4 marzo, il polverone elettorale che da mesi confonde la vista, si sarà definitivamente depositato, sarà più facile ragionare nel merito delle buone intenzioni, anche delle Regioni che oggi vorrebbero affiancarsi alle prime tre.

Un’ultima considerazione. Qualcuno, dietro le quinte, a bordo campo… Ops, a bordo tavolo, nella sala Verde di Palazzo Chigi, commentava: ” Con questa firma il Veneto torna in Italia”. Ricordiamo tutti l’epopea della Lega (fino a pochi mesi fa Lega nord), il credo secessionista, la marcia lungo il Po, il Parlamento padano, il rinnovato vigore del 2007 quando, nel secondo governo Prodi, Lombardia e Veneto (Formigoni e Galan) presentano proposte di avvio del negoziato con Roma. Sarebbe stato facile attribuire l’arresto della trattativa proprio alla caduta del governo Prodi nel 2008. Ma si poteva immaginare subito dopo, una congiuntura politica più favorevole? Zaia, vicepresidente della giunta Galan, era diventato ministro (dell’Agricoltura). Eppure Galan e Formigoni non diedero seguito agli intenti. L’autonomia, tanto veneta quanto lombarda, venne messa in soffitta.

Per ritrovare l’argomento si deve attendere il 2014, questa volta con la richiesta di referendum che, dopo la sentenza della corte, la 118 / 2015, sarà celebrato il 22 ottobre 2017. Il resto è storia recente. Certo è che per qualcuno il cerchio si chiude. Un cerchio che ricorda la precisione di Giotto, quello tracciato dal sottosegretario Gianclaudio Bressa, nel 2001 estensore del comma dell’art. 116 della Costituzione (proprio quello ai sensi del quale si è raggiunta una pre intesa) e oggi, appunto, negoziatore in rappresentanza del governo Gentiloni. L’idea era venuta al giovane sindaco Bressa, primo cittadino di Belluno, nel confrontarsi quotidianamente con le difficoltà di una località stretta tra i territori a statuto speciali. Gli accordi firmati a Parigi da De Gasperi e Gruber non potevano certamente varcare i confini. Come fare? Ai tempi della Bicamerale di D’Alema, l’idea iniziale di un’autonomia differenziata si trasforma allora nell’emendamento Bressa, votato in commissione solo dal firmatario, Boato e Zeller. Ma in aula il relatore D’Alema ha dimostrato di crederci, lo ha fatto proprio, ed è stato votato. Dalla riforma del Titolo V alla firma di oggi in sala Verde a Palazzo Chigi, il salto è stato tutt’altro che breve. Ma ci siamo arrivati.

La questione dell’autonomia si chiude con un dubbio fastidioso: Le cose, poi, andranno avanti “chiunque” sarà al governo e “qualunque” sarà la maggioranza parlamentare? L’accordo è istituzionale, non politico. Il timore è che, come nel 2008, una volta depositata la polvere della campagna elettorale, tutto ritorni in soffitta. Qualcuno, a quel punto, dovrà motivare.

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