Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Il diagramma piatto e la ricetta per la crescita. Ecco l’Italia letta dall’Istat

istat, disoccupazione, crescita

Gli ultimi dati Istat mostrano un’immagine ben diversa dalle narrazioni che hanno accompagnato questa campagna elettorale. La fotografia del Paese è di quelle in HD. Consente di cogliere ogni sfumatura e, al tempo stesso, di avere a disposizione un arco temporale di riferimento, che coincide con la legislatura appena trascorsa.
Che cosa è successo, allora, in questi ultimi 5 anni? Il primo dato che emerge è la voglia degli italiani di non arrendersi, di fronte alle difficoltà del momento. Un popolo di piccoli eroi se si considera che hanno dovuto combattere spesso a mani nude. Mentre la politica volgeva ad altrove lo sguardo.

Dal profondo baratro del 2012, quando il Pil era diminuito dell’1,7 la risalita è stata lenta, ma continua. Fino a trasformare quel “meno” in un “più”. Con una crescita finale pari all’1,5 per cento del Pil. Ancora insufficiente per colmare la distanza con il resto dell’Europa. Ma comunque benvenuta: a dimostrazione che l’auto si è rimessa, seppure faticosamente, in carreggiata. Merito di quel pugno di imprese che non ha esitato a sfidare concorrenti ben più agguerriti sui grandi mercati internazionali. Ma anche delle famiglie che non hanno tirato i remi in barca, consumando almeno una parte del proprio reddito. La somma di questi due elementi ha prodotto un piccolo miracolo. Nonostante la disoccupazione sia rimasta ai livelli che conosciamo ed i settori più deboli della società italiana siano stati costretti a misurarsi con il loro inferno quotidiano.

Comunque sia quell’antica vitalità, che è propria della nostra gente, non è venuta meno. Un valore da preservare. Ci fosse stato un piccolo guizzo della politica, i risultati sarebbero stati migliori. Ma il freno è rimasto, purtroppo, tirato. Forse non ha prodotto danni, ma certo non ha aiutato. Da un punto di vista generale, non ha prodotto risultati. La politica è rimasta quel ramo secco che, purtroppo, conosciamo.

C’è un dato che illustra meglio di mille parole, lo stallo che si è registrato nel modo di operare degli apparati pubblici: includendo in questa categoria tutti i livelli istituzionali. Nel 2012 la spesa per interessi era pari 83,6 miliardi. Nel 2017 è scesa a 65,3 miliardi, con un risparmio pari a 18,3 miliardi. Nello stesso intervallo di tempo l’indebitamento netto è diminuito di 14 miliardi (da 47,2 a 33,2 miliardi). Prima conclusione sconfortante: non siamo nemmeno riusciti a capitalizzare i vantaggi che Mario Draghi, con la sua politica monetaria, aveva garantito. Un bonus destinato ad esaurirsi. Ed allora perché imprecare contro l’Europa, quando non siamo in grado di cogliere le pur scarse opportunità che ci sono state offerte?

Quei 4 miliardi che non abbiamo utilizzato per ridurre il deficit, si sono sommati al forte aumento delle entrate fiscali. Cresciute, nel corso della legislatura, di 28,5 miliardi. Somme utilizzate, in larga misura, per far crescere la spesa complessiva. Che aumenta di oltre 36,4 miliardi. Quella corrente al netto degli interessi. Perché quella in conto capitale diminuisce, invece, di 3,7 miliardi.

Sarebbe, tuttavia, ingiusto non riconoscere come la pressione fiscale sia, nel frattempo, diminuita, passando dal 43,6 per cento del Pil, degli anni 2012 e 2013, al 42,4 per cento. Con un risparmio per il contribuente di 1,2 punti percentuali. Resta, tuttavia, lo squilibrio tra quanto creato dal sistema economico nel suo complesso, grazie allo sviluppo economico che si è registrato, e l’utilizzo di questo surplus. Una contraddizione che deve essere compresa come viatico per il prossimo futuro.

Uscire dal pantano della crisi, che ancora permane se vista con gli occhi dell’Europa, significa bloccare, con un tetto invalicabile, la spesa corrente, al netto degli interessi. Un compito da affidare alla spending review, piuttosto che ipotizzare tagli difficilmente realizzabili, come mostra ormai un’esperienza decennale. In questo caso le forbici dei riformatori devono essere usate soprattutto per qualificarne la portata. Migliorare i servizi pubblici, cambiandone la relativa composizione. La cosa che più impressiona, in questi cinque anni vissuti poco pericolosamente, è la sua staticità. Le uniche forme di contenimento sono state quelle relative ai redditi di lavoro dipendente, la cui percentuale sul totale della spesa corrente al netto degli interessi scende dal 24,7 al 23,2 per cento. Ma per il resto, è diagramma piatto.

Se si operasse nella direzione indicata, le maggiori entrate derivanti dalla crescita economica, a parità di pressione fiscale, potrebbero essere utilizzate per rilanciare gli investimenti pubblici e ridurre il carico di imposte che grava su famiglie ed imprese. Ne deriverebbe un’accelerazione del tasso di sviluppo e, quindi, una spinta autopropulsiva che, a sua volta, produrrebbe maggior benessere individuale e collettivo. L’avvio di un “circolo virtuoso”, come dicono gli economisti. La stipula d un’assicurazione sulla vita per evitare di essere ancora più esposti alle turbolenze internazionali – i dazi promessi da Donald Trump e la fine del quantitative easing – che si intravedono, minacciose, all’orizzonte.

×

Iscriviti alla newsletter