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Trump e l’inquietante solitudine del numero 1

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Fino a qualche tempo fa potevamo pensare alla difficile conciliazione tra un Presidente nuovo alla politica ed il più complesso ufficio pubblico del pianeta, cioè la Casa Bianca. Ora però possiamo affermare con ragionevole certezza che siamo di fronte ad una situazione decisamente più compromessa, con aspetti che mettono seriamente in dubbio la tenuta complessiva del mandato presidenziale.

Stiamo parlando, come è ovvio, di Donald Trump e del suo tumultuoso ingresso nella West Wing, cioè l’ala dell’edificio voluto da George Washington e inaugurato nell’estate del 1800 che ospita il Presidente degli Stati Uniti ed il suo staff. Trump arriva alla Casa Bianca appoggiato da tre “risorse” essenziali, perfettamente rispondenti alla complessità del suo carattere ed alla situazione che ne ha determinato l’elezione.

In primo luogo c’è la famiglia, che ha nel genero Jared Kushner e nella figlia Ivanka i soggetti più rilevanti. C’è poi il vasto movimento conservatore, spesso in polemica con il GOP (Grand Old Party), il glorioso partito repubblicano americano, che ha dovuto accettare la candidatura di Trump solo dopo averla combattuta alle primarie. Steve Bannon, funambolico e vulcanico giornalista-editore-polemista ne è il leader nonché il rappresentante ufficiale sin dentro lo Studio Ovale. Infine c’è la squadra di professionisti della politica, quegli esperti navigatori di Washington che si affiancano al candidato negli ultimi dodici mesi prima delle elezioni, impersonati innanzitutto da Reince Priebus, primo Capo di Gabinetto dell’era Trump, cioè titolare dell’ufficio più importante dopo quello del Presidente. Con questa squadra a tre punte Trump avvia il suo mandato, su questa squadra si appoggia il senso della sua politica.

Ebbene oggi, a distanza di poco più di un anno dall’ingresso alla Casa Bianca, di quella squadra non resta quasi più nulla, poiché si è sgretolata sotto il peso delle invidie, dei rancori, delle inchieste e, in larga misura, annientata dalla più assoluta inadeguatezza al ruolo.

Cominciamo dalla famiglia, che aveva nella giovane coppia la punta di diamante e nella bellissima Hope Hicks la più solida e fedele esecutrice. Ebbene Jared Kushner ha perso da qualche giorno i diritti ad esaminare i documenti riservati, mente Ivanka è sottoposta ad un massiccio assalto mediatico che le contesta discutibili commistioni tra affari privati e ruolo pubblico (il New York Times arriva a parlare di un suo imminente allontanamento), mentre Hope Hicks, già addetto stampa della casa di moda di Ivanka e poi capo della comunicazione del Presidente, ha rassegnato tre giorni fa le sue dimissioni. Kushner, che detiene il mandato esplicito per seguire le questioni del Medio Oriente, vede dunque compromessa la sua posizione. Ivanka, che ha addirittura rappresentato il Presidente alle Olimpiadi invernali in Corea del Sud, è in evidente difficoltà. Hicks è fuori, dopo aver goduto della massima fiducia di Trump negli ultimi tre anni, schiacciata dal peso dell’indagine del procuratore speciale Mueller sul Russiagate, dopo aver rilasciato una deposizione durata nove ore.

Insomma la componente familiare è in palese affanno, senza considerare la freddezza di Melania, che però appartiene a tutta un’altra sfera di questioni.

Sul fronte politico è già da oltre sei mesi che Steve Bannon ha lasciato la Casa Bianca, addirittura prendendo posizioni polemiche con l’intera gestione degli uffici e attaccando pubblicamente (e ancora più privatamente, come racconta Michael Wolff nel libro da poco uscito in Italia) l’intero staff, con parole al vetriolo su Kushner in particolare.

Poi c’è il partito e ci sono le potenti strutture di lobby. Anche qui la situazione è devastata, come dopo un bombardamento aereo. Reince Priebus è stato “licenziato” a luglio dello scorso anno, mentre tutti gli uomini che hanno supportato il candidato Trump sono finito malissimo, spesso coinvolti in inchieste di vario tipo, da Corey Lewandowski a Paul Manafort ed al suo braccio destro Rick Gates.

È quindi ben evidente la devastante offensiva che il “Deep State”, lo Stato profondo, ha mosso all’improvvido, umorale e capriccioso Presidente, quel Donald Trump che, forte di una trionfale campagna elettorale, ha cacciato James Comey, il direttore dell’FBI, con una gelida letterina recapitato a mano dal suo personale capo scorta Keith Schiller. La battaglia è dunque in corso e si annuncia dolorosa sopratutto sul fronte dell’inchiesta Russiagate: “Special counsel Robert S. Mueller III is significantly turning up the heat on President Trump” – scriveva ieri il Washington Post.

Saranno i tagli alle tasse e le politiche contro gli immigrati, vero collegamento del Presidente con la piccola borghesia impaurita e impoverita d’America, in grado di salvarlo e magari rieleggerlo, visto che lui stesso ha annunciato di volersi candidare nuovamente nel 2020?

Riusciranno i tre grandi generali cui Trump ha affidato le posizioni più importanti (John Kelly nuovo Capo di Gabinetto, Herbert Raymond McMaster Consigliere per la Sicurezza Nazionale e James Mattis Segretario alla Difesa) a ricucire i mille rapporti istituzionali devastati in questi mesi? È presto per dirlo, ma i segnali non sono incoraggianti.

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