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Veltroni e il compito della sinistra dopo i 5 Stelle

Walter Veltroni

Dire che Walter Veltroni, nella sua intervista al Corriere della Sera, sia stato quello di sempre, forse è riduttivo, ma rende l’idea. Grandi idealità, una ricerca delle ragioni più profonde delle radici della sinistra non solo in Italia, ma nella storia dell’intera umanità. Il riferimento a Spartaco in una dimensione millenaristica. E quindi il leitmotiv di un’intera vita: quel dobbiamo stare “dove c’è più disagio, più povertà, più disperazione, più angoscia”, in una grande testimonianza d’amore. Operazione non semplice in una realtà che “non è più strutturata, organizzata in classi, con forti elementi unificanti”. Ma in un mondo molecolare quale appunto quella “società liquida in cui la sinistra si è persa”.

Forse doveva essere quest’ultima considerazione la base di partenza per capire quel domani che, almeno in parte, è già presente. E che Beppe Grillo, con il suo strabismo un po’ istrionico, cerca di anticipare. Ma quale lavoro? Il progresso tecnologico accelerato ne rende superfluo la declinazione. Dobbiamo avere reddito e non salario, grazie all’opulenza prossima ventura legata a quell’intelligenza artificiale che soppianterà la fatica umana. Le macchine che creeranno ricchezza. Il mondo dell’abbondanza contro quello della scarsità. Ormai vecchio cruccio degli economisti accademici. Ed ecco allora la profferta di “un salario di cittadinanza”. Un anticipo del futuro prossimo venturo.

Concetti apparentemente nuovi nella loro impostazione, ma vecchi di più di un secolo nella loro specifica formulazione. Era stato Carlo Marx, soprattutto nei Gundrisse, ad evocare l’avvento del “regno della libertà”. Del dominio assoluto dell’uomo su una natura per secoli matrigna. Ed era questo il compito storico della borghesia, come indicato nello stesso Manifesto del Partito comunista. “Creare le basi materiali su cui potesse sorgere un mondo migliore”.

La società liquida, per riprendere Zygmunt Bauman, il sociologo polacco, in qualche modo ne ha anticipato i tempi. Se la classe operaia, fino a ieri soggetto dominante del panorama delle moderne società, ha oggi basi sempre più ristrette, qualcosa deve pur significare. Non è stata una vendetta del destino, ma solo la conseguenza delle trasformazioni intervenute nei modi di produzione: che hanno sempre meno bisogno di presenze fisiche, sostituite dalla tecnica e dal capitale.

Un capitale, va subito aggiunto, che costa sempre meno. Il ritmo di crescita tecnologica, nei settori collegati all’informatica, secondo la vecchia legge di Moore, si dimezza anno dopo anno. E questa infrastruttura rappresenta sempre più il cuore della produzione di qualsiasi bene e dei relativi servizi. Basti pensare ad Amazon ed allo spiazzamento che la sua presenza ha determinato negli andamenti del commercio e della distribuzione di beni.

Siamo quindi pienamente immersi in un grande processo di trasformazione. La vecchia fabbrica fordista non esiste quasi più. L’estensione dell’azienda moderna si è ristretta ed abbonda di tecnici in camice bianco che sorvegliano gli automatismi. Sono questi processi che fanno crescere le moltitudini. Che espellano dal circuito coloro che, per motivi diversi, vivono nelle periferie. E che sono esclusi dai relativi benefici.

In compenso abbiamo politiche economiche e fiscali ritagliate ancora sul vecchio mondo. Incapaci di intercettare e governare fenomeni così complessi e, ancora, per molti versi sconosciuti. Ma non per questo siamo alla vigilia del mondo sognato da Marx ed evocato, in qualche modo, da Beppe Grillo. Non lo siamo a causa degli squilibri profondi che queste trasformazioni hanno determinato. Squilibri non solo italiani. Basti pensare al fenomeno epocale dei migranti: fuggiti da Paesi in cui un’industrializzazione di tipo fordista rappresenterebbe ancora un elemento di grande progresso e di stabilizzazione. Insomma: è ancora lontano il sogno della totale emancipazione dal bisogno.

Compito (ma non solo della sinistra) è misurarsi con queste complesse architetture. E non basta certo dire: “Sto con chi soffre”. Se poi si è incapaci di prospettare possibili soluzioni, che riducano gli squilibri, ma al tempo stesso non rappresentino un ostacolo al diffondersi di quelle infrastrutture immateriali che rappresenteranno, negli anni futuri, il perno di qualsiasi diritto di cittadinanza. Il problema ha ancora oggi un sapore antico: come allargare le basi produttive del Paese? Come incoraggiare i singoli individui nel loro inserimento nel mondo del domani? Che richiederà più cultura – sebbene forse diversa dal passato – più formazione, più padronanza dei linguaggi nella Babele di un mondo sempre più globalizzato. Ecco il limite vero dei sogni grillini.

In questo percorso bisogna evitare fughe in avanti. Soprattutto qualsiasi misura che suoni come concessione alla rassegnazione. Al non mettersi in gioco. Forse un domani basterà venire al mondo per aver diritto ad un salario di cittadinanza quale contropartita di una produzione integralmente socializzata. Forse non esisteranno più le frontiere, ma solo un mondo fatto di apolidi. Ma giungere a questi traguardi – se mai ci si arriverà – è ancora una lunga strada. Tentare di bruciarne le tappe, proponendo nell’immediato alleanze di governo, solo una pericolosa illusione.

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