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Per attrarre investimenti in Italia serve (molta) intelligence. Ecco perché

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Quando si parla di investimenti esteri nel nostro Paese ci si imbatte da un lato in chi difende strenuamente l’italianità delle nostre aziende e dall’altro in chi guarda con favore alle opportunità di crescita derivanti dalle acquisizioni straniere di imprese italiane. Cosa si cela, però, dietro le opportunità di crescita rappresentate dai capitali stranieri e dagli investimenti esteri nelle imprese dei settori-chiave nazionali? Essere attrattivi per gli investimenti stranieri può rappresentare un rischio per la nostra sovranità?

Vi sono numerosi esempi positivi di investitori esteri che hanno rafforzato le imprese nazionali. Occorre poi ricordare che tra i soggetti stranieri che operano sul mercato, i Fondi sovrani sono i più presenti come attori privati e con ingenti risorse. Tra il 1992 e il 2000 in Italia abbiamo assistito all’acquisizione da parte di società private, anche straniere, delle principali società pubbliche, tra le quali BNL, Istituto mobiliare italiano e Istituto nazionale assicurazioni.

Durante gli anni delle privatizzazioni, molte aziende dell’industria nazionale sono finite in mano straniera come il Nuovo Pignone, acquisito dalla americana General Electric, o le Acciaierie speciali Terni, inglobate nella tedesca ThyssenKrupp. Le privatizzazioni sono state gestite dalle banche d’affari anglosassoni e, in particolare, da Goldman Sachs, i cui consulenti italiani sono stati, tra gli altri, Romano Prodi, Mario Monti, Mario Draghi e Gianni Letta. Originariamente si pensava che le privatizzazioni avrebbero portato a una drastica riduzione del debito pubblico, ma ciò non si è verificato. Infatti, nel 1992 lo Stato controllava l’80% del sistema bancario e dava lavoro al 16% degli italiani. Da quell’anno al 2013, si sono incassati oltre 127 miliardi di euro dalle privatizzazioni e nello stesso periodo il debito pubblico è passato da 795 miliardi di euro a 2.060 miliardi.

Gli Stati Uniti detengono il record del debito pubblico mondiale. Nel 2015 i maggiori investitori su deficit accumulato da Washington erano la Cina (1.185 miliardi di dollari) e il Giappone (1.144 miliardi di dollari). Il debito pubblico italiano del 2015, per il 37% è in mano agli investitori stranieri, mentre la quota in possesso delle famiglie italiane è in netto calo. Il controllo del debito pubblico è un giano bifronte poiché da un lato può condizionare le economie nazionali ma dall’altro, quando si superano certe soglie, c’è l’interesse a promuovere quelle economie per consentire la restituzione del debito.

Oggi si può riscontrare un paradosso, e cioè che sono le grandi società industriali ancora controllate dallo Stato, come l’Eni, a essere cresciute di più negli ultimi anni: recentemente l’utile operativo dell’azienda di San Donato Milanese è quadruplicato rispetto all’anno precedente. Un esempio di altra natura è quello rappresentato dalla Fiat, dove l’azionista di maggioranza è la Exor NV, controllata dalla famiglia Agnelli- Elkann, che ha sede legale in Olanda. Tra gli altri azionisti della Exor figurano colossi del sistema finanziario globale come BlackRock, Vanguard Group e Fidelity Management. Un altro pezzo del sistema economico nazionale come Telecom Italia e controllata dalla società di media e comunicazione francese Vivendi. Più recente è l’acquisto di Italo-Ntv da parte del fondo d’investimento americano Global Infrastructure Partners.

Il quadro che emerge da questi brevi spunti sembra delineare l’aspetto negativo della globalizzazione, che indebolisce la sovranità nazionale poiché sposta il livello della decisione dal piano politico a quello finanziario. Mentre da un lato risulta dunque vincente il capitalismo finanziario, dall’altro appare in tutta evidenza la crisi delle élite espresse dalle democrazie, che a causa della loro fragilità rischiano di far prevalere le multinazionali finanziarie e quelle del crimine su scala planetaria.

Un aspetto poco evidenziato è che le aziende straniere portano i centri decisionali, e a talvolta anche quelli industriali, all’estero. Viene quindi compromesso l’interesse nazionale e, al tempo stesso, si assiste a un impoverimento diretto della formazione dell’alto management e anche dei rapporti tra università e gruppi industriali. La perdita di investimenti sul capitale umano è probabilmente l’aspetto più negativo. Il ruolo dell’intelligence è legato all’interesse nazionale.

In questa prospettiva, all’intelligence compete un’analisi preventiva e attenta su tutte le conseguenze derivanti dalle privatizzazioni, dagli investimenti esteri all’interno dei territori dei vari Paesi, dal controllo del debito pubblico, dalla provenienza reale e legale dei capitali investiti. Così come tocca anche all’intelligence analizzare la correttezza dei comportamenti dei manager e dei politici in queste operazioni, per verificare se è stato effettivamente perseguito l’interesse nazionale oppure altro.

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