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Ecco cosa l’Italia può fare (e cosa no) nella crisi siriana. Parla Franco Frattini

Di ritorno dagli Emirati Arabi Uniti, dove ha potuto saggiare la preoccupazione del governo di un’escalation in Medio Oriente, il presidente della Sioi Franco Frattini, già commissario europeo e ministro degli Esteri, ha voluto condividere con Formiche.net tutti i suoi dubbi sulle manovre statunitensi in Siria all’indomani dell’attacco chimico a Douma. L’appello per la comunità internazionale è quello di evitare di accendere la polveriera mediorientale, dove anche un piccolo incidente (la storia lo insegna) è sufficiente a far deflagrare una guerra decennale. Un’investigazione internazionale, imparziale, sulle responsabilità dei crimini efferati a Douma è l’unica chance per dissipare i dubbi e allentare le tensioni. L’invito per l’Italia è ancora più netto: restare fuori a ogni costo da questo conflitto.

Franco Frattini, dal governo italiano filtra una presa di distanza dall’attacco di Douma e dall’escalation nella regione, eppure dalla base siciliana di Sigonella decollano jet americani. Come si spiega questa contraddizione?

Il problema è molto chiaro, l’Italia oggi con un governo dimissionario non può certamente prendere un impegno in Siria. Sempre che ci venga chiesto, perché al momento non è arrivata una richiesta ufficiale. Per un intervento del genere serve ben più di una telefonata, che peraltro ancora non c’è stata. Quando Obama nel 2013 ci chiese di prendere parte alla fornitura di armi ai ribelli e all’attacco contro Assad rispondemmo con due secchi no, e ci fecero eco subito dopo Regno Unito e Francia.

A suo parere l’Italia dovrebbe offrire il suo aiuto agli Stati Uniti?

Credo che ci debba essere un nettissimo rifiuto da parte dell’Italia di qualsiasi impegno che preveda azioni militari o sostegno ad azioni militari contro il governo siriano per due ragioni.

Quali?

La prima è di carattere costituzionale. Senza una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che autorizzi l’uso della forza noi non possiamo neanche ragionare di intervenire in un conflitto. Ricordo che nel 2003, all’alba della guerra in Iraq, noi non potemmo e soprattutto non volemmo partecipare al vertice delle Azzorre, dove fu deciso l’attacco a Saddam della “coalition of willings”. Carlo Azeglio Ciampi e Silvio Berlusconi, allora presidenti della Repubblica e del Consiglio, avendo letto la Costituzione dissero di no. Partecipammo solo dopo l’intervento delle Nazioni Unite, ad azione militare conclusa.

E la seconda?

Dobbiamo assolutamente evitare che scoppi una terza Guerra Mondiale seguendo una coalizione dai contorni ancora poco chiari. Nel 2011 in Libia aspettammo non una, ma ben due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza prima di intervenire e ponemmo come precondizione per l’uso delle nostre basi militari che le operazioni rientrassero in una missione Nato.

È pur vero che fornire le basi agli aerei americani significa prendere parte alle operazioni militari. C’è il rischio che questo supporto logistico rovini ulteriormente le nostre relazioni con Mosca.

Fornire le basi è esattamente la stessa cosa di un intervento militare. Non dobbiamo prestarci a questa operazione, lo ripeto, innanzitutto per non violare la Costituzione. Poi certo c’è una questione geopolitica: con la necessità che abbiamo di combattere il terrorismo mettere Stati Uniti e Russia uno contro l’altro sarebbe un gravissimo errore. Già vedo i miliziani di Daesh festeggiare con lo champagne nelle roccaforti siriane. Anche un bambino si renderebbe conto che gli unici a trarne aiuto sarebbero i jihadisti.

Che ruolo può avere dunque l’Italia per fermare l’escalation?

Possiamo offrirci per partecipare allo smantellamento delle armi chimiche eventualmente trovate in Siria. Credo che Assad abbia tutto l’interesse a ospitare un’investigazione internazionale. Se trovano le armi può consegnarle per distruggerle: è successo nel 2013, quando una nave americana è giunta in Calabria nel porto di Gioia Tauro per caricare l’arsenale chimico consegnato da Assad e smantellarlo. Qualora non fosse scoperto alcun centro di produzione di queste armi, tanto meglio per Assad. In un caso e nell’altro l’esito è win-win per la comunità internazionale.

I tweet di Donald Trump su un imminente attacco in Siria sono una mossa tattica o preludono a un intervento nelle prossime ore?

Non credo che Trump sia così irresponsabile da lanciare i missili in una zona dove sono stanziati i soldati russi, ritengo più probabile che voglia dare una dura lezione ad Assad colpendo una base dove ci sono solo soldati siriani. Il vero rischio però è l’incidente: se un missile devia il percorso e cade sulle teste dei soldati russi il disastro è assicurato. Mettere le mani in una polveriera come il Medio Oriente significa rischiare di accendere la miccia di una Terza Guerra Mondiale: si può colpire l’esercito russo, ma nella regione ci sono anche le brigate di pasdaran iraniani, Israele non vede l’ora che un missile parta da Teheran per lanciargliene due in risposta.

Secondo lei dunque il Presidente americano non passerà dalle parole ai fatti?

La politica estera americana nel mondo non si fa su twitter. Trump ha definito il dittatore nordcoreano Kim Jong-un “rocket man”, ha detto di avere il dito sul bottone dell’atomica e adesso si parla di un prossimo incontro bilaterale. Mi auguro che anche alle frasi come “cari russi i missili stanno arrivando” seguano gesti di distensione.

Al momento non c’è stata un’indagine internazionale per provare che le armi chimiche sono state usate da Assad. Sono sufficienti le supposizioni per minacciare un intervento bellico?

Siamo tornati di nuovo alla storia della “pistola fumante” agitata per la guerra in Iraq. Oppure al più recente caso Skripal, e alla figuraccia del ministro degli Esteri britannico Boris Johnson, che dopo aver scritto su twitter di aver le prove che si è trattato di un gas russo, ha dovuto eliminare la frase perché smentito dai suoi stessi esperti. Sono dichiarazioni usate per giustificare una decisione già presa: dare addosso ad Assad. Se questo è lo scopo, sarebbe più credibile affidare le indagini sul presunto attacco chimico a Douma a un’organizzazione internazionale come l’ESCWA. Ma la storia ci insegna che queste narrazioni hanno una finalità politica che non c’entra nulla con una investigazione trasparente e corretta.

L’Unione Europea ha una voce in capitolo sull’escalation in Siria?

Ancora una volta l’Unione Europea è assente, ormai non è un mistero che non esiste una politica estera europea. Fatto salvo l’orrore manifestato per i morti di Douma, ci mancherebbe, l’Europa farebbe meglio il suo mestiere se promuovesse un’investigazione internazionale per accertare le responsabilità di questi crimini.

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