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Le stragi dell’Isis obbligano a non lasciare solo l’Afghanistan

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Erano stati i talebani, lo scorso 25 aprile, ad annunciare la nuova campagna di primavera contro Stati Uniti e i loro alleati. Invece le prime stragi dopo l’annuncio sono opera dell’Isis che ha di nuovo insanguinato l’Afghanistan con attentati significativi per modalità e obiettivi. Il primo è avvenuto nel centro di Kabul, nei pressi del quartier generale dell’intelligence afghana, dove un kamikaze ha provocato alcuni morti, ma era una trappola per colpire i soccorritori e i giornalisti che sarebbero giunti sul posto: un secondo kamikaze, che secondo alcune fonti sarebbe stato munito di una telecamera per mimetizzarsi tra i media, si è fatto esplodere e il bilancio complessivo sarebbe di almeno 25 morti e 45 feriti. Tra loro, almeno 9 giornalisti uccisi e 5 feriti.

L’immediata rivendicazione è arrivata dall’Isis che, attraverso la propria agenzia di stampa Amaq, ha parlato addirittura di un bilancio di quasi 110 morti con evidente tentativo di disinformazione. Lo Stato islamico della provincia del Khorasan ha attaccato gli “apostati di forze di sicurezza e media” confermando che la stampa è ufficialmente nel mirino. Tra le vittime un fotografo della France Presse, Shah Marai, capo dell’ufficio dell’agenzia di Kabul, mentre gli altri reporter lavoravano per tv afghane. In un’altra zona, nella provincia di Khost, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco un giornalista afghano della Bbc, Ahmad Shah, e anche in questo caso i talebani si sono tirati fuori definendolo “un vero professionista”. L’Isis ha rivendicato anche l’uccisione di un comandante dell’intelligence afghana a Jalalabad.

Un altro attentato è avvenuto a Kandahar, seconda città dell’Afghanistan, dove un attacco kamikaze ha colpito un convoglio Nato nei pressi dell’aeroporto, ma ha coinvolto anche una scuola coranica uccidendo almeno 11 studenti (non è chiaro se bambini). Otto militari rumeni e due poliziotti afghani sono rimasti feriti e il comandante della missione Nato “Resolute support”, generale John Nicholson, ne ha attribuito la responsabilità ai talebani stigmatizzando l’alto numero di vittime civili.

La giornata di sangue offre qualche spunto di riflessione. Innanzitutto la conferma che l’Isis in Afghanistan continua la sua duplice guerra contro l’Occidente e contro i talebani per il controllo del territorio: il Califfato ha assoluto bisogno di riconquistare un’area dopo la sconfitta in Siria e Iraq mentre i talebani hanno obiettivi interni e non internazionali. Ciò fa sì che l’Isis non si ponga dei limiti, tanto che il 22 aprile aveva rivendicato un attentato kamikaze con 60 civili uccisi (compresi donne e bambini) e 129 feriti fuori da un centro di registrazione degli elettori in vista delle elezioni di ottobre. Nello stesso tempo, sarebbe curioso se l’attentato di Kandahar fosse davvero opera dei talebani che solo qualche giorno fa avevano raccomandato di evitare vittime civili: se l’attacco a un convoglio Nato colpisce in pieno una scuola coranica si ottiene l’effetto contrario.

Scontata la condanna internazionale, dalla Francia che piange un reporter della propria agenzia nazionale all’Ue che invita al rispetto dei civili e dei giornalisti. Solidarietà anche dal ministro degli Esteri, Angelino Alfano: “Uniti sempre nella lotta al terrorismo e per la libertà di espressione” ha scritto in un tweet. Gli ultimi eventi dimostrano che la guerra in Afghanistan non sarà vinta, che un accordo con i talebani è difficile, ma che nello stesso tempo l’Occidente non può abbandonare quel Paese che diventerebbe un santuario terrorista con rischi per tutto il mondo.

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