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No al derby fra Arabia Saudita e Qatar. Gli Usa sostengono l’intesa nel Golfo

“Enough is enough”, è questa la sintesi cruda con cui gli insider di Foggy Bottom descrivono ai media americani parte del messaggio che il nuovo segretario americano, Mike Pompeo, ha affidato agli alleati sauditi (e indirettamente emiratini) durante il viaggio che lo ha portato fresco di nomina a Riad.

Pompeo avrebbe detto agli alti funzionari del Regno che Washington ne ha abbastanza della guerra diplomatica che sta spaccando il Golfo, quella tra sauditi ed e emiratini (e alcune altre nazioni che si sono accodate) e il Qatar. Dallo scorso giugno, Riad s’è fatta capofila del gruppo di paesi che hanno isolato Doha, accusandola formalmente di finanziare il terrorismo islamico e più implicitamente di aver preso una linea troppo indipendente nella gestione della propria politica estera, soprattutto riguardo alla troppa apertura nei confronti dell’Iran.

Ci sono varie ragioni per cui gli Stati Uniti vorrebbero che i rapporti interni tra quei paesi alleati vengano recuperati.

Innanzitutto, la sfera militare. Il Pentagono e il dipartimento di Stato hanno sempre assunto una linea moderata sulla vicenda (la Casa Bianca invece no, s’è lanciata subito al fianco dei sauditi), soprattutto perché il Qatar ospita la più grande base americana in Medio Oriente. Al Udeid è una postazione strategica nella regione e allo stesso tempo tattica perché da lì passano le missioni contro lo Stato islamico in Siria e Iraq.

Il ruolo del Qatar, anche solo per la logistica, è imprescindibile nella lotta al terrorismo americana. E nessuno meglio di Pompeo, ex direttore della Cia e dunque informatissimo sulle vicende che avvengono da quelle parti, può saperlo.

La faccenda diventa particolarmente attuale se si pensa che adesso l’IS ha perso la dimensione statuale ed è tornato il gruppo eversivo terroristico clandestino che era ai tempi della Guerra d’Iraq. Il ruolo del Qatar sarà dunque importante per lavorare sul posto.

Ma gli Stati Uniti pensano all’emirato anche sotto un’altra ottica. La Casa Bianca da tempo ipotizza un complicato passaggio di consegne al nord e all’est della Siria, dove le forze speciali americane hanno accompagnato un gruppo politico di milizie curde-arabe contro il Califfato. L’idea del presidente e di alcuni circoli intorno a lui è quella di costruire una forza militare sunnita per sostituire, se non tutto, gran parte del contingente statunitense.

Per Trump dovrebbe essere composta da sauditi, emiratini, egiziani e appunto qatarini: è una formazione improbabile, soprattutto perché sono sunniti e rischierebbero di esacerbare il confronto con le milizie assadiste iraniane, dunque sciite, che compongono le file dell’esercito governativo siriano.

Ma sarebbe ancora più improbile se composta da paesi in guerra diplomatica. E poi per Washington andrebbe già bene se quegli alleati mediorientali fossero disposti a mettere risorse economiche — e su questo genere di impegno serve anche il Qatar, che in quanto a soldi non è secondo a nessuno (nella globalità dell’idea trumpiana con quei soldi si potrebbero anche pagare contractors ingaggiati per combattere i baghdadisti al posto dei soldati regolari americani, ma questa proposta da manager aziendale non piace per niente al Pentagono).

In più, Pompeo avrebbe spiegato ai partner sauditi che un Consiglio di Cooperazione del Golfo diviso non piace agli americani nemmeno perché si mostra troppo debole nei riguardi dell’Iran. È una leva valida per Riad, che sta da un paio d’anni alzando il tono del confronto con Teheran — e la vicenda del Qatar è uno dei passaggi importanti di questo nuovo corso più aggressivo, su cui ora Washington dice: occhio che può essere un boomerang.

I due piani si incastrano, visto quanto spiegato dall’ambasciatrice americana all’Onu, Nikki Haley (una con cui Pompeo dovrà dialogare evitando la ruvida rotta di collisione in cui era entrato con lei il suo predecessore). Haley ha spiegato che gli Stati Uniti resteranno in Siria per combattere l’IS e per contenere l’Iran — e chiunque sarà con loro avrà questo doppio compito.

Citare Haley (che aveva tolto le foto del predecessore di Pompeo, Rex Tillerson, dai suoi uffici New York, talmente lo amava) è utile per tirare in ballo un’altra questione, quella interna.

Nel trattare coi sauditi, che Pompeo conosce perché con loro aveva intavolato colloqui a livelli di intelligence (ed era stato il primo alto funzionario americano a recarsi nel regno), c’è la questione Kushner. Jared Kushner, genero-in-chief, è finora l’uomo che per la Casa Bianca tratta gli alleati mediorientali, anche perché ha creato un’empatia personale con i giovani regnanti di Riad e Abu Dhabi.

Kushner è in touch con le mosse di Mohammed bin Salman, l‘erede al trono saudita che decide le politiche del regno, e forse per smuovere il saudita da certe posizioni.

Pompeo dovrà lavorare su queste sponde interne meglio di quanto ha fatto Tillerson, spesso scavalcato su certi dossier. Forse il viaggio organizzato appena nominato è un segnale sul nuovo corso americano?

 

 

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