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W il complotto! Ecco le teorie di come opera la macchina di disinformatia in Russia

La vulgata cospirazionista animata dalla Russia dice che l’attacco chimico di Douma è stato un “false flag“, ossia una messa in scena pensata dall’Occidente per attaccare la Siria. È stato lo stesso rappresentate russo alle Nazioni Unite, Vasily Nebenzya, a dire con un coup de théâtre che è stata tutta una macchinazione voluta da Londra per distogliere l’attenzione dal caso Skripal, l’ex spia russa avvelenata a inizio marzo a Salisbury – attacco per cui gli inglesi accusano i servizi segreti russi, che avrebbero così regolato i conti con un traditore, e da cui Gran Bretagna e Stati Uniti hanno rafforzato la propria posizione contro la Russia, che invece si dichiara innocente e come prova della sua innocenza dice che adesso Skripal sta meglio (come dire: lo avessimo fatto avrebbe fatto la fine di Litvinienko).

Tra i perché a supporto di questi complotti ce ne sono di soliti (sparare missili, vendere armi, per esempio), di specifici del conflitto siriano (tipo il classicheggiante: gli occidentali vogliono il regime change a Damasco), di speciali regionali (gli israeliani e i sauditi hanno orchestrato tutto per far rimanere gli americani in Siria). Vediamoli con ordine.

La questione delle vendita di armi è assolutamente relativa: per dire, gli americani continuano a vendere tranquillamente i loro armamenti e non hanno certo bisogno di studiare una farsa per scatenare una rappresaglia e dimostrare al mondo quanto sono validi i loro missili. Certo, il presidente Donald Trump twitta à la Mastrota una minaccia che annuncia ai russi – che poche ore prima avevano a loro volta dichiarato di voler abbattere qualsiasi missile americano sparato sulla Siria – che “stanno arrivando” contro di loro armi (missili) “belle e nuove e intelligenti!”, ma è un confronto ovvio: se il russo Vladimir Putin pochi mesi fa annunciava alle camere di aver creato il missile adatto per penetrare qualsiasi sistema difensivo della Nato e adesso dice di poter prevenire qualsiasi tentativo di attacco americano in Siria, l’altro (che da una vita bazzica il mondo degli affari) non può tacere e ricorda a tutti che sul mercato i suoi sono i missili migliori. Scenografia: soltanto 31 minuti dopo (come fa notare il giornalista Antonio Talia) un altro tweet di Trump propone a Mosca di far qualcosa per bloccare la corsa alle armi.

Passiamo alla questione regime change: nessuno – nessuno davvero –, né Trump né gli alleati americani che si sono resi disponibili a spalleggiare un’azione (a proposito: da che parte sta l’Italia, si chiede Paolo Messa nel suo editoriale per Formiche.net), ha mai parlato di un’operazione regime change contro Bashar el Assad. Il dittatore siriano, con l’aiuto russo e iraniano e senza che l’Occidente si opponesse mai realmente, ha soppresso la rivolta e ormai riconquistato la quasi totalità del territorio che nel settembre 2015 – prima dell’entrata in guerra russa – vedeva quotidianamente assottigliarsi. Come ha spiegato a chi scrive questo articolo lo scorso anno l’ex ministro della Difesa italianoMario Mauro, Assad va preso con pragmatismo, ha vinto la guerra, c’è e ci sarà: potete pensare che la perpetrazione al potere di “Animal Assad“, come l’ha chiamato Trump, sia una ferita che ci porteremo sulla coscienza, visto le atrocità che ha commesso, ma nemmeno la Casa Bianca ha in mente di andare oltre gli insulti e alcuni paesi europei (compresa l’Italia) sono interlocutori di Damasco. L’eventuale azione militare che si prospetta servirà a lavarsi la coscienza un po’ come successe lo scorso anno in una circostanza del tutto simile (magari sarà più robusta, ma la testa del satrapo siriano non cadrà perché nessuno vuol tagliarla).

E allora, veniamo alla cospirazione alleata: c’è qualcuno che sostiene che Israele e Arabia Saudita, nel loro nuovo avvicinamento pragmatico contro l’Iran, avrebbero architettato tutto per non distogliere l’attenzione di Trump dal dossier siriano. Lo avrebbero fatto perché il presidente americano nei giorni scorsi aveva annunciato l’intenzione di tirar fuori i soldati boots on the ground nel paese, che per Riad e Tel Aviv sarebbero una garanzia davanti alla trasformazione della Siria in una piattaforma d’attacco iraniana. Ma questa sovrapposizione di piani non giova alla comprensione (per non dire che è la solita bega del complotto guidaico eccetera eccetera): non che la Siria non sia diventata una piattaforma militare iraniana, ma va ricordato che i soldati americani sono dislocati nella fascia settentrionale a centinaia di chilometri da Damasco, sono circa duemila, quasi tutti forze speciali, embedded con i combattenti curdi. Sono quelli che hanno permesso la riconquista del territorio dove in precedenza s’era instaurata una bella fetta di statualità dello Stato islamico. La loro presenza è del tutto disgiunta dalla guerra civile siriana: anzi, il gruppo paramilitare che appoggiano è sostanzialmente nemico dei ribelli siriani che hanno combattuto Assad. Il loro obiettivo non è il regime, ma i baghdadisti (se ci sono state accavallamenti è perché alcuni dei miliziani governativi filo-iraniani sono ansiosi di uccidere gli infedeli occidentali alla stregua dei terroristi del Califfato).

Quello che più che altro emerge, invece, è una sostanziale impreparazione logistica da parte degli americani. Trump da tre giorni sta annunciando un attacco imminente, che però non arriva, forse perché gli americani non hanno nemmeno un gruppo da battaglia nel Mediterraneo, frutto di uno shift strategico che ha visto concentrarne tre contemporaneamente nel Pacifico in deterrenza a Cina e Corea del Nord.

In queste ora, sta scendendo da Norfolk, in Virginia, la portaerei “USS Harry Truman” con tutto lo Strike Group 8, che arriverà nel Mediterraneo non prima di mercoledì, giovedì prossimo. Ma è un dispiegamento già pianificato nell’ambito di una rotazione degli assetti navali prevista dalla US Navy – ciò non toglie che la portaerei potrebbe far da base per attacchi, sia le navi che l’accompagneranno potrebbero essere usate per lanciare missili sulla Siria.

Da qui, di nuovo all’inizio: gli Stati Uniti avrebbero ordito un “false flag” a Douma talmente raffinato da da includere anche l’impreparazione strategica americana sulle derive delle vicende dell’area MENA, o siamo di nuovo davanti a teorie cospirative con cui la disinformazione russa e iraniana – quella studiata, quella del credulone, dello schiantato, del rancoroso – cerca di coprire le terribili mosse di un dittatore sanguinario?

Un indizio: la Russia ha sempre sostenuto che non c’è stato nessun attacco chimico, che è stato tutta una messa in scena a cui hanno partecipato gli esperti agenti della Cia e dell’Mi6 inglese. Ma oggi, a un certo punto, in un’azione di trolling estremo, Mosca ha dichiarato che un eventuale bombardamento americano servirebbe a distruggere le prove dell’attacco chimico.

E insomma, quell’attacco chimico che in alcune versioni russo-siriane non c’è mai stato, e in altre è stata un’azione suicida decisa da attori esterni per ragioni d’interesse, ora diventa questione centrale: i bombardamenti americani potrebbero cancellarne le prove, dicono, come se l’obiettivo di quei raid fosse Douma – dove ci sono civili e poc’altro – e non colpire postazioni tattiche di Assad.

Tutto serve per preparare il terreno a una mossa diplomatica giocata da Damasco (e dalla Russia) che ha invitato un team di esperti dell’Opcw a raccogliere le prove dell’attacco chimico – che però la propaganda a tratti nega, si ricorda. I tecnici dell’Organizzazione mondiale per le armi chimiche qualche mese fa avevano già raccolto prove sufficienti per incolpare il regime siriano dell’attacco di aprile 2017 a Khan Shaykhoun, ma una volta che i loro report sono stati presentati la commissione di indagine è stata affondata da un veto della Russia durante la riunione del Consiglio di Sicurezza Onu che avrebbe dovuto decidere se prolungarne l’attività. Era l’ottobre scorso: dunque da cinque mesi sappiamo che Assad ha usato il sarin contro i civili almeno quella volta, ma manca il meccanismo che possa incolparlo definitivamente. Nel frattempo, Douma.

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