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Cosa abbiamo imparato dalla caduta della stazione spaziale cinese. Parla Walter Villadei

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Dopo settimane di apprensione e un weekend di Pasqua trascorso con il naso all’insù, la prima stazione spaziale cinese è rientrata alle 00:16 UTC dello scorso 2 aprile in un’area dell’oceano Pacifico compresa tra le coordinate 13.6° sud e 164.3° ovest. Ma perché tanta apprensione? La ragione principale è che si trattava di un rientro incontrollato e vi erano diverse orbite, tra quelle potenzialmente di rientro, che sorvolavano l’Italia e, fino a poche ore prima dell’effettiva capture in atmosfera, non era possibile escluderle tutte. Considerando le velocità orbitali nella bassa orbita terrestre (Leo), è sufficiente una differenza di meno di 20 minuti perché un oggetto rientri dalla parte opposta del pianeta, peraltro con una frammentazione che può interessare un’area potenziale di oltre mille chilometri e larga qualche centinaio.

Ma vediamo i fatti. La Tiangong-1 è la prima stazione spaziale cinese lanciata nel 2011 dal centro spaziale di Jiuquan, con una massa di circa 8 tonnellate e dimensioni pari a circa 10,4 metri per 3,5 per 17. Nulla a che vedere con la Mir (124 tonnellate) e neppure con l’attuale Stazione spaziale internazionale (420 tonnellate), ma piuttosto simile a una Salyut russa (19 tonnellate). Nel marzo 2016 l’agenzia cinese per i voli umani nello spazio (Csma) ha dichiarato di averne perso il controllo. Da quel momento, viste le dimensioni, l’oggetto è stato attenzionato da diverse organizzazioni internazionali, nell’ottica di prevederne il rientro ed eventualmente predisporre adeguati piani d’emergenza.

Ma con quale precisione e affidabilità questi rientri sono prevedibili? Non è semplice definirlo. Servono sensori distribuiti worldwide in grado di misurare distanza e velocità; software in grado di trasformare questi dati in parametri orbitali; modelli che tengano conto delle condizioni di space weather, del comportamento atmosferico, delle anomalie gravimetriche e magnetiche, della dinamica dell’oggetto (come in questo caso dove la Tiangong non era in assetto stabile ma aveva un “tombolamento” che ne variava il coefficiente balistico in modo importante soprattutto negli strati bassi dell’atmosfera). Queste capacità non sono nella disponibilità di molti Paesi. Gli Stati Uniti certamente, con il Joint space operations centre (Jspoc) restano indiscussi leader e riferimento in questo settore. Ma anche l’Italia, in ambito nazionale ed europeo, si è data da fare.

Alla luce del rischio di un possibile rientro sul nostro territorio, la Protezione civile ha attivato le consuete procedure per la gestione dell’emergenza e conseguentemente convocato un tavolo tecnico per valutare il rischio e monitorare l’evolvere della situazione. Per eventi di questa natura, l’Agenzia spaziale italiana (Asi) svolge la funzione d’interfaccia verso le autorità competenti per fornire il necessario supporto tecnico. Ma la novità, rispetto al passato, è stata la disponibilità di una capacità nazionale di Space surveillance and tracking (Sst) che l’Italia ha iniziato a sviluppare nel 2014, grazie anche a una sperimentazione svolta dall’Aeronautica già dal 2012, che ha condotto nel giugno del 2015 alla costituzione dell’Organismo di coordinamento e indirizzo per la Sst (Ocis) con la partecipazione della Difesa e dell’Am, dell’Asi e dell’Inaf.

Tale iniziativa si inserisce poi nel contesto di quella europea denominata Sst support framework che, sempre nel 2015, ha visto il costituirsi di un EuSst consortium con cinque Paesi (oltre all’Italia anche Francia, Germania, Regno Unito e Spagna). Tale capacità nazionale è stata messa a disposizione della Protezione civile, mediante il centro operativo di Pratica di Mare (Isoc), dove personale del Reparto sperimentale di volo, coadiuvato in ottica di dualità da una presenza fisica in loco di Asi e Inaf, ha coordinato le operazioni di utilizzo di due radar (Multi frequency doppler radar) ubicati presso il Poligono interforze del Salto di Quirra (Pisq), dove personale della Difesa e dell’industria hanno effettuato diverse misure della stazione cinese. Tale attività ha avuto delle finalità principali di sperimentazione, oltre che di supporto operativo alla Protezione civile, in quanto hanno consentito, per la prima volta, di provare procedure e sistemi in una situazione reale.

Durante gli ultimi giorni, l’Isoc ha generato dei report previsionali, dimostrando che l’Italia dispone di una capacità nuova e importante in questo settore, sapendo generare dati proprietari. Ovviamente questo non è sufficiente e ancora molto resta da imparare. Fondamentale la cooperazione con gli Stati Uniti, dove proprio per l’occasione l’Am ha inviato un liaison presso il Jspoc per seguire le attività. In definitiva, sono tre le lezioni che è possibile trarre da questa vicenda:

1) Questi eventi accadono e in futuro accadranno con maggiore frequenza, alla luce dell’incremento di oggetti in orbita e della commercializzazione dello spazio.

2) Sono necessarie procedure e capacità di gestione di operazioni complesse che certamente l’Italia ha dimostrato di avere, pur in forma iniziale, anche ricercando sinergie tra quelle istituzioni che hanno competenze in questo settore, come l’Am, in ottica di messa a fattor comune delle expertise disponibili.

3) La complessità di una capacità di Space situational awareness è un processo di capability buildup che richiede di essere sostenuto nel tempo, sia mediante allocazione di adeguati fondi sia e soprattutto con un adeguato livello di attenzione politica che ne riconosca la valenza strategica.

In sintesi, la possibilità di assicurare al Paese un accesso sicuro allo spazio e un adeguato livello di protezione dell’infrastruttura spaziale, nazionale ma anche europea a cui contribuiamo, non potrà prescindere da una capacità costante di sorveglianza spaziale, in futuro integrata in una più complessa Space situational awareness.

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