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Le ansie da prestazione del nordismo e le macerie del centrismo

La morfologia delle quattro forze politiche fondamentali in cui tradizionalmente si articola la classe dominante dell’Italia repubblicana è stata profondamente sconvolta dal voto del 4 marzo e dalla successiva gestione tattica della crisi politica; in cui inesperienza degli attori vincenti, interferenze estere (e non solo dalle tanto citate Berlino, Bruxelles e Parigi), opacità ed eccesso di ambizioni sugli obiettivi (che tipo di Italia veniva immaginata, in una sorta di rilancio del tardo-craxismo evocante un ruolo di Roma come battitrice libera tra “potenze sovrane”, al limite giocando di sponda con Russia e Gran Bretagna) hanno fatto il resto.

LA TEORIA DELLE QUATTRO FORZE

Si può recuperare una nostra analisi all’indomani delle elezioni del 2013, per verificare quanto e come la stasi del 2018 è impregnata ancora della dinamica tra: a) un partito radicale e movimentista capace di minacciare dall’esterno il “sistema” delle relazioni fondamentali (Quirinale-sindacati-Confindustria); b) una forza progressista laburista; c) una forza moderata e al limite conservatrice; d) una filiera “laica” rappresentativa della media impresa. In pratica, con il vecchio linguaggio: Pci, Psi, Dc e Pri-Pli.

È COME SE LA VECCHIA DC FOSSE ESPLOSA

Il 4 marzo e l’immediata proclamazione della “vittoria sovranista”, preparata e anticipata da un’attenta seminagione compiuta da almeno un forte gruppo televisivo e alcuni gruppi editoriali italiani, ha subito messo in agitazione quella che in altri tempi sarebbe stata la Dc, ovvero il centrodestra, centrifugandolo tra Berlusconi (erede, forse, di quelli che allora sarebbero stati i voti fanfaniani) e Salvini (che reinterpreta la destra Dc di Segni, Cossiga, Tambroni, partito d’ordine filo-imprenditoriale e liberale del Nord), a rapporti inversi visto che la destra Dc non ha mai avuto ai tempi una forza paragonabile al 20-25% di cui è accreditato ora il Carroccio. Con questa dinamica, l’estroflessione “andreottiana”, ovvero la ex-Dc romana con i suoi collegamenti interni al mondo imprenditoriale e politico della capitale è un frammento che solo Fratelli d’Italia può in teoria raccogliere, accingendosi a fare da ago della bilancia tra i due blocchi, nell’ottica di riunirli (cosa di cui tuttavia non sembra avere la capacità mancandole l’asset fondamentale di un imprimatur vaticano, vista la pesante vena anti-immigrazione su cui insiste).

…E NON RIUSCISSE A RICOMPORSI

Il dramma di questi tre spezzoni del moderatismo è che non riescono a ricomporsi; il rassemblement della destra Dc oggi sarebbe una combinazione SalviniMeloni sull’asse Milano-Roma che però è bloccato da Forza Italia, con le reti di Berlusconi che un giorno sì e un altro pure tengono alta la polemica non solo sulla Giunta Raggi ma sullo stesso “pressapochismo della capitale” (si veda il servizio di Canale 5 sull’ultima tappa del Giro d’Italia). Schiacciato a Nord e tenuto sotto scacco degli editori d’area, a loro volta in affanno rispetto all’estremismo dei social, questo centrodestra non ha potuto far altro che guardare con sorpresa al coup salviniano, ovvero l’avvicinamento dell’ala destra dello schieramento ai Cinque Stelle, che nel frattempo hanno assunto la posizione cui la dinamica delle forze, insieme al loro intrinseco e impolitico eticismo di fondo, li ha spinti: è come se la stella polare del movimento da Berlinguer fosse divenuta dal giorno alla notte Almirante, e il loro approccio, restando radicale, avesse cambiato bandiera, adattandosi alla chiamata della Dc-Nord e configurandosi come “nuovo Msi”.

C’È ANCORA UN NORDISMO REPUBBLICANO?

Si può ipotizzare che i non molti voti emanazione delle élites assommino strutturalmente a un 10% legato al progetto Monti del 2013, e alla somma di Pri e Pli negli anni della Prima Repubblica. Si tratta dell’importante storia che ha collegato per alcuni decenni la Trieste di Generali, la stanza di compensazione milanese di Mediobanca e la dinastia torinese degli Agnelli, garantendo da Nord rapporti equilibrati con l’intervento statale in economia, un flusso di investimenti produttivi e tecnologici, un’adeguata redistribuzione del reddito concordata con i sindacati, una fiscalità progressiva (ma spesso evasa in Svizzera, va detto), l’avanzamento delle condizioni salariali, mediazioni politiche con la Dc e con lo stesso Pci non facili, ma sempre rispettose della Costituzione repubblicana, delle istituzioni e degli interessi delle regioni fondamentali del Paese, dunque soprattutto della cosiddetta Padania, che certo non è nata con Umberto Bossi. Un assetto non da tutti apprezzato, basti pensare alla “maggioranza silenziosa” di Cefis che cercò di forzare dall’esterno questo equilibrio, o alla retorica “grande-riformista” di Craxi che da Milano riuscì a scalare il potere profittando del disordine correntizio della DC post-Moro e dell’auto-isolamento del Pci dopo il 1980.

SE SÌ, HA BISOGNO DI UN NUOVO CENTRISMO

Chi riesce a catturare o coalizzare almeno una parte di questa forza, che è quella maggiormente preoccupata dalla virata antisistema leghista, potrebbe costituire un secondo rassemblement a guida nordista; potrebbe farlo un Pd che rinunci a ogni paludamento ideologico (ma non alla centralità strategica del lavoro). Tuttavia i tempi per un’operazione del genere saranno necessariamente lunghi, perché si tratta di ricostruire un centrismo che un quinquennio di renzismo e anti-renzismo (ovvero di operazioni politiche personalistiche e contro-operazioni mediatiche di character-assassination) hanno logorato, desertificando il panorama politico sotto il Po, e lasciando ai gruppi dirigenti padani l’impressione errata e pericolosa di essere soli al comando di un Paese allo sbando, con un sud che chiede solo ed esclusivamente “reddito di cittadinanza”. Un’impressione banale che solo gruppi politici con le antenne troppo lontane da un Sud plurale e articolato possono aver coltivato.

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