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Due elezioni delicatissime nell’area Mena: Libano e Tunisia alle urne

Due elezioni, oggi, domenica 6 maggio, in altrettanti Paesi delicatissimi, segnano il panorama nell’area Mena (quella che per la dottrina geopolitica americana individua la macro-regione che va dal Medio Oriente verso ovest, lungo il bacino mediterraneo, segnando il Nord Africa). Si vota in Libano e Tunisia, due luoghi rappresentativi della perenne crisi mediorientale e della precaria stabilità nordafricana.

I 128 seggi del parlamento libanese saranno rinnovati dopo essere rimasti congelati per nove anni. La legge proporzionale, su cui si confronteranno oltre 500 candidati da 77 liste diverse, è una novità del sistema elettorale – oltre a quella rappresentata dalla prima volta al voto per i libanesi che vivono all’estero – in un Paese in cui comunque vige la separazione confessionale dei poteri e dove i seggi stessi finiscono assegnati in via prestabilita in base alla comunità religiosa: sunnita, sciita, cristiana – una rapida guida che l’Agi ha fatto sul voto, indica i numeri:  64 seggi alla comunità cristiana (34 ai cristiano maroniti, 14 ai greco-ortodossi, 8 ai melchiti, 5 agli armeno-ortodossi, uno a testa per le restanti minoranze cristiane) e 64 seggi alla comunità musulmana (27 ai sunniti, 27 agli sciiti, 8 ai drusi e 2 agli alawiti).

La sofferta riforma elettorale è stata il motivo formale per cui il voto è stato sospeso per quasi un decennio, ma come fa notare Ugo Tramballi in un articolo che ricostruisce il contesto libanese sul Sole 24 Ore, c’è un motivo meno ufficiale e più grande dietro allo stallo: la guerra in Siria, “il timore di aumentare la tensione con una campagna elettorale ed essere risucchiati dal caos oltre la frontiera”, con tutti i riverberi collegati (la geopolitica, il terrorismo, il colpo economico – nel 2010, l’anno prima del conflitto, il Libano cresceva dell’8 per cento, ora dell’1 –, il rischio sociale connesso alle centinaia di migliaia di rifugiati che hanno trovato riparo dalla guerra).

Massima attenzione sugli Hezbollah, il Partito di Dio, potrebbe trarre vantaggio dalla frammentazione politica legata al proporzionale (con le liste più piccole che potrebbero trovare posto in parlamento) e rafforzarsi ulteriormente. Con tutti i rischi connessi: Hezbollah è un partito/milizia di confessione sciita e completamente collegato all’Iran, che lo usa per muovere i propri interessi proxy. Per esempio, è stato il primo dei gruppi del genere che Teheran ha mandato in Siria per sostenere il regime di Damasco, e questo – l’essere carne da cannone degli ayatollah – gli ha permesso di accumulare crediti. Ora il gruppo è potente e ricco, rinforzato dalle armi iraniane, e diventa un elemento di disequilibrio in un contesto delicatissimo, anche perché potrebbe aprire un fronte autonomo – spinto dall’Iran – contro Israele.

L’elezione è anche un test importante per il primo ministro Saad Hariri, considerato il capo dei sunniti libanesi sulle familistiche orme del padre (così è la politica in Libano: una questione di famiglia, e famiglie), ma obbligato a trovare nel voto il feedback dall’elettorato – con un Paese che ha un debito pubblico al 150 per cento del Pil. La figura di Hariri, pressato in casa dalla forza dei partiti sciiti come Amal e soprattutto Hezbollah, è importante perché dietro di lui si muovono le trame saudite: Hariri è considerato l’uomo di Riad in Libano, tanto che tempo fa fu costretto alle dimissioni – poi rientrate – come mossa per sottolineare la crisi innescata dal controllo iraniano (via Hezbollah) nel paese.

Contemporaneamente si voterà in Tunisia, Paese nordafricano dove la tenuta della democrazia conquistata con la Primavera araba (l’unica di successo) è stata più volte messa in discussione anche dai tentativi destabilizzanti prodotti dallo Stato islamico attraverso attentati e propaganda.

Dal 2011, anno della cacciata del rais Zine el Abidine ben Ali, è la prima volta che si vota per le elezioni amministrative – le cosiddette delegazioni speciali che con la rivoluzione hanno sostituito le giunte locali sono da tempo oggetto del malcontento della popolazione, perché diventate scatoloni corrotti e ingombranti (e non eletti: oggi si metterà invece in pratica il principio del decentramento amministrativo inserito nella Costituzione del 2014).

Quasi settemila membri di consigli comunali saranno eletti in 350 comuni nei 24 governatorati del paese, con i grandi partiti come Ennhada (partita islamista) e Nidaa Tounes (laico) che si confronteranno con il consenso popolare. E sarà anche l’occasione per pesare le forze in vista del voto del 2019, quando si rinnoverà il parlamento e la presidenza. “Sulle elezioni amministrative, inoltre – spiega una nota dell’agenzia Nova –, aleggia lo spettro di un’elevata astensione, già anticipata dall’esiguo tasso di partecipazione del 12 per cento degli agenti di sicurezza e dei militari, che pur si recavano alle urne per la prima volta nella loro storia. Inoltre, pende sul voto il rischio di nuovi attentati terroristici”.

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