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Uccidere Baghdadi è una rincorsa politica tra Russia e Stati Uniti

totalitarismo, Baghdadi

La guerra contro lo Stato islamico continua a essere concentrata lungo il corridoio dell’Eufrate, striscia di terra che corre lungo il fiume mesopotamico; una valle che inizia nell’area desertica siriana di Deir Ezzor e sbocca in Iraq passando per città note a chi segue il corso della lotta all’IS (al Mayadin, Hajin, al Bukamal, al Qaim).

È lungo questo distillato dell’ex statualità del Siraq califfale che la rincorsa all’uccisione agli uomini di Abu Bakr al Baghdadi — e perché no, a Baghdadi stesso, su cui tra l’altro pendeuna taglia da 25 milioni di dollari  — è diventata una questione più che altro politica. 

Catturare o eliminare il Califfo ha un valore enorme: la forza territoriale sarà anche stata ridotta, ma i baghdadisti continuano a essere uno dei problemi che il mondo deve risolvere, basta guardare in queste ultime ore Parigi e l’Indonesia, colpite da attentati quanto meno ispirati dal Califfo. 

Chi lo eliminerà avrà l’onore di tagliare la testa al gruppo: si dice che decapitare certe organizzazioni è quasi un’operazione fine a sé stessa, ma stringere il cappio attorno all’Isis in un momento di debolezza come quello attuale resta comunque importante. La riorganizzazione richiede tempo, selezione: e la forza del gruppo è imprescindibilmente legata alle persone che l’hanno composto. 

Gli Stati Uniti da tempo hanno avviato una campagna martellante contro il Califfato, che ha portato all’eliminazione di strutture, mezzi, uomini. La quasi totalità della catena di comando centrale è stata colpita dai missili di precisione americani. Attività che hanno trovato da una perte il prezioso supporto delle milizie IDF, create ad uopo dal cuore combattivo dei curdi siriani; dall’altra la cooperazione con esercito e intelligence irachena, forze di sicurezza che gli americani conoscono, alimentano, addestrano.

Fin dal settembre 2015, invece, la Russia ha concentrato il suo impegno sulla salvaguardia del potere in Siria: missione che solo raramente s’è sovrapposta con la caccia ai baghdadisti, ma adesso che Bashar el Assad non solo è salvo, ma ha vinto la guerra contro i ribelli, anche i russi (e i loro alleati) possono concentrare i loro sforzi sull’IS — finora usato come mostro a cui agganciare un coinvolgimento in Siria che aveva ragioni di interesse più che di sicurezza nazionale, sebbene tra le linee di Baghdadi i miliziani russofoni non mancano (anzi, sono tantissimi, storici, uno di loro, eliminato dagli Stati Uniti, era diventato il capo di tutte le operazioni militari).

Un episodio di questa settimana ci spiega come la rincorsa al Califfo abbia valore politico e sia diventata un confronto tra rivali: coalizione internazionale da un lato, gruppo dei russi dall’altro.

A metà aprile e a inizio maggio gli iracheni hanno lanciato due rarissimi raid extra territoriali: hanno colpito due località del corridoio dell’Eufrate in Siria, Hajin e Dashisha. Alcuni ufficiali dell’intelligence di Baghdad hanno poi detto pubblicamente a Fox News che il loro governo ha autorizzato l’azione oltre confine (ufficialmente mai vista prima) perché avevano e hanno ottime ragione di credere che quelli sono i due luoghi in cui si nasconde Baghdadi.

Gli ufficiali dall’Iraq hanno detto alla rete all-news americana che quei due raid sono stati il frutto della collaborazione con una “multi-force” composta da Iraq e Russia-Iran-Siria. Missioni decise nel centro di comando che i tre alleati hanno installato nella capitale irachena. Nei comunicati ufficiali dell’operazione anti-IS Inherent Resolve, invece gli americani continuano a dire che le operazioni di Baghdad contro il Califfato sono condotte tutte “con l’aiuto” delle informazioni di intelligence americane.

Pochi giorni fa il New York Times ha ottenuto da due anonimi funzionari iracheni le informazioni necessarie per raccontare la storia della cattura di cinque esponenti dell’IS tra cui Alwaan al Ithawi, nom de guerre Abu Zeid al-Iraqi, alto esponente considerato piuttosto vicino al Califfo. Ithawi è stato preso in Turchia, a Sakarya (meno di duecento chilometri a est di Istanbul) dove viveva con la moglie siriana nascosto, male, usando l’identità del fratello. 

Quando a febbraio lo hanno catturato i turchi (che sulla Siria sono membri di un gruppo tripartito con russi e iraniani, ma sull’IS seguono l’alleanza classica con gli occidentali) lo hanno consegnato a iracheni e americani, che in una base segreta in Iraq lo hanno interrogato tirandogli fuori diverse informazioni. Pare anche quelle che hanno permesso il raid di metà aprile su Hajin, dove si considera i baghdadisti abbiano piazzato il quartier generale (nel raid sono stati uccisi 39 combattenti). 

Ithawi era un papavero dell’IS di Deir Ezzor ancora in contatto con il gruppo, al punto che gli americani e gli iracheni lo avrebbero anche convinto a creare una trappola per i suoi ex commilitoni baghdadisti, che sono stati convinti ad attraversare il confine con l’Iraq, dove le forze di sicurezza di Baghdad erano pronti e li hanno catturati. Queste le informazioni non ufficiali del Nyt.

Invece uomini del governo iracheno hanno voluto far sapere a volto scoperto alla rete più trumpiana su piazza, Fox News, che adesso anche il centro di comando con iraniani, siriani e russi lavora bene. E lavora insieme a loro. 

In questi giorni in Iraq ci sono state le elezioni, e molte dichiarazioni e mosse sono da leggere anche nel quadro della ricerca di consensi e del creare il terreno di relazioni futuro. Oppure gli americani non hanno più l’esclusiva sulla caccia ai baghdadisti.

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