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Fca, Ilva, Fincantieri e Leonardo. Tutte le lacune nel contratto Lega-5 Stelle

contratto

In una delle sue ultime dichiarazioni Matteo Salvini ha ripetuto che Lega e Movimento 5 Stelle avevano definito un programma e la squadra per il Governo, ma che gli è stato negato l’accesso alla guida del Paese perché qualcuno – il riferimento è evidentemente rivolto al Presidente Mattarella – glielo ha voluto impedire.

Ora, premesso (per onestà intellettuale) che il Capo dello Stato domenica sera ha dichiarato che aveva accolto ed approvato tutti i nomi propostigli per l’Esecutivo meno quello del prof. Savona – esercitando così un potere assegnatogli dalla Costituzione – credo sia giunto il momento di avviare un’analisi approfondita di alcuni contenuti del contratto di governo, per chiedere ai suoi contraenti, e soprattutto allo stesso Salvini, se veramente lui e il suo staff di esperti economici pensino che la seconda potenza industriale d’Europa possa essere governata con un programma che dei 30 punti che lo compongono non ne dedica nemmeno uno – ripeto, nemmeno uno – all’industria italiana, ai suoi settori trainanti, alla sua distribuzione geografica, alle sfide competitive e occupazionali che l’attendono. Nulla di tutto questo, solo sporadici riferimenti alla “piccola industria” e alle “nostre eccellenze produttive” nel paragrafo 29 a pag. 54 dedicato alla Ue, là dove si afferma: “Vanno debellati i fenomeni di dumping all’interno dell’Unione, eliminate le decisioni lesive degli interessi della piccola industria, valorizzate le nostre eccellenze produttive, perseguite le contraffazioni, le violazioni dei marchi e la circolazione dei falsi, proibendo le confusioni tra “made by Italy” e “made in Italy” e imponendo la dichiarazione di origine dei prodotti”.

Certo, tutto utile e necessario quanto appena richiamato. Ma come – verrebbe tuttavia da chiedersi – Sergio Marchionne sta per annunciare il 1° giugno (e lo sappiamo da lungo tempo) il nuovo piano industriale del gruppo FCA – che ridefinirà fra l’altro l’assetto e la mission produttiva di sue grandi fabbriche italiane, fra cui quelle di Pomigliano d’Arco e S. Nicola di Melfi – e il programma di Lega e 5Stelle non ha ritenuto di farvi alcun cenno? E tutti i settori della componentistica – o almeno larga parte degli stessi, che potrebbero essere investiti da processi di ristrutturazione selettiva alla luce delle decisioni del Gruppo guidato da Marchionne con intuibili risvolti anche occupazionali – non avrebbero meritato una qualche attenzione?

E Il futuro dell’Ilva e del suo sito di Taranto – ovvero della più grande fabbrica manifatturiera d’Italia con i suoi 10.980 addetti diretti, fornitrice di semilavorati a diffuse sezioni dell’industria meccanica localizzata al Nord – non avrebbe potuto essere trattato ben più ampiamente e con parole meno ambigue di quelle adoperate nel punto 4 a pag. 13 del documento, che i Cinque Stelle interpretano come l’annuncio dell’avvio della sua chiusura, sia pure in un arco temporale non immediato, e che invece la Lega ha smentito con fermezza?

E le politiche energetiche del Paese? E la specifica questione della complessa e non indolore (sotto il profilo occupazionale) fase di transizione dall’economia fondata sui combustibili fossili alle energie rinnovabili non meritava almeno qualche rigo in più di schematici riferimenti alla green economy? Ad esempio, l’Enel ha annunciato entro il 2025 la dismissione a Brindisi della sua megacentrale di Cerano da 2.640 MW, che potrebbe così togliere lavoro ad oltre 1.200 persone fra diretti e indiretti – non ancora pensionabili per la loro (anche allora) giovane età – oltre a far crollare buona parte dei traffici del porto locale. Su questo punto specifico nessuna parola, nessun richiamo all’esigenza di una ricollocazione dei lavoratori interessati. Perché? Perché non si conosce il problema?

E lo sfruttamento dei giacimenti nazionali di petrolio e di gas – là dove sono già in esercizio, e là dove invece, pur essendo stati localizzati, non sono ancora in produzione per resistenze ambientaliste – non meritava menzione, soprattutto in un momento in cui il petrolio è ritornato sui 70 dollari al barile, con immediato aumento del prezzo della benzina e del costo dei trasporti su gomma? Grandi investimenti sono stati annunciati dall’Eni in Adriatico nei prossimi anni, il polo della navalmeccanica off-shore di Ravenna rischia il tracollo se si bloccheranno le estrazioni di petrolio e gas in quel mare – e potrebbe non risultare affatto facile collocarne le attività impiantistiche sui mercati esteri – ma il contratto di governo non dice nulla al riguardo. Perché?

E l’aerospazio, e i suoi grandi distretti di Piemonte, Lombardia, Lazio, Campania e Puglia non avrebbero meritato una qualche citazione per proporne linee strategiche di crescita, dal momento che l’Italia schiera nelle costruzioni aeronautiche ed elicotteristiche il Gruppo Leonardo (ex Finmeccanica) che deve competere però con big player mondiali di ben altre dimensioni?

E la navalmeccanica – che ha visto fra l’altro lo scorso anno il sofferto accordo fra i Governi Italiano e francese per il controllo dei cantieri di Saint Nazaire acquistati dalla Fincantieri, un gruppo quest’ultimo che è tornato prepotentemente fra i maggiori operatori mondiali del comparto – non poteva essere richiamata, anche per la presenza nel Mezzogiorno di questa società a controllo pubblico, ma quotata in borsa, con i suoi siti di Castellammare di Stabia e di Palermo?

E potremmo continuare nell’evidenziare tutte le lacune di analisi e di proposta, a nostro avviso clamorose, del contratto di governo sottoscritto da Salvini e di Maio in materia di politica industriale. Ma lo ha fatto il Presidente della Confindustria Boccia il giorno dell’Assemblea nazionale della sua associazione con un discorso che – per chi lo rilegga con attenzione nella sua interezza – a tratti appare veemente nella sua requisitoria contro la debolezza analitica e propositiva del documento redatto dagli staff dei due leader sulle questioni dell’industria in Italia.

E le lacune sono ancor più clamorose sia per i Leghisti – al governo di due regioni (Lombardia e Veneto) che sono fra i cuori industriali dell’intera Europa – e sia per Di Maio che si candidava alla guida del superMinistero dello sviluppo economico e del lavoro.

Ma veramente si poteva nutrire questa pur legittima aspirazione senza scrivere neppure un rigo sulle politiche industriali dei grandi pubblici e privati, italiani ed esteri, presenti in Italia e proiettati sui mercati esteri, mai citati peraltro, come se il solo farlo potesse apparire agli occhi di cittadini, imprenditori ed operai una sorta di colpa grave? E se con tutti i riferimenti necessari alla politica industriale il contratto fosse apparso troppo ampio e di difficile lettura, si sarebbe potuta allestire una ricca sezione di allegati almeno per gli addetti ai lavori – dalle imprese alle banche, dai sindacati ai ricercatori, dai gestori di infrastrutture agli investitori esteri – che li avrebbero letti con grande attenzione e che, invece, ne hanno impietosamente notato la carenza, ricavando così dall’analisi del documento la netta impressione di una mancanza di vision strategica e di prospettiva del sistema industriale italiano.

Eppure abbiamo motivo di ritenere che nei due Movimenti politici vi siano competenze ed esperienze di qualità che avrebbero meritato di venire alla luce e di essere valorizzate nella stesura di un contratto di governo che per i settori produttivi sembra guardare in prevalenza all’agricoltura, alla pesca, alla green economy, al trattamento rifiuti – tutti comparti meritevoli di attenzione, certo – ma in un contesto programmatico che avrebbe dovuto offrire, a nostro parere, prevalente attenzione ai settori tuttora trainanti dell’industria nazionale che alimentano filiere lunghe di subforniture e di attività di ricerca applicata, contribuendo inoltre all’utilizzo di infrastrutture (Interporti, centri intermodali, piattaforme logistiche, scali portuali) sulle quali peraltro non si scrive nulla nel contratto.

Era questo allora il programma del cambiamento che aveva l’ambizione di “scrivere la storia”? Ma non sembra emergervi invece solo il profilo di un’Italietta industriale, apparentemente ripiegata su sé stessa e non quello di una grande potenza manifatturiera che deve sempre di più competere nel mondo?

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