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Parigi in fiamme brucia anche i sogni di Macron?

macron, rifugiati, migranti

Parigi ricorderà a lungo la festa del 1° maggio di quest’anno. È stata violentata, saccheggiata, deturpata da migliaia di violenti, i soliti black bloc (ma non solo), che hanno affiancato i lavoratori che non manifestavano in maniera tranquilla, a dire la verità, ma scandendo slogan ostili al governo, contro il liberal-capitalismo e le privatizzazioni. Emmanuel Macron, diciassettemila chilometri lontano, in Australia dove si trova in visita di Stato, nella notte, al telefono con il segretario generale dell’Eliseo, ha provato a minimizzare dicendo che la giornata del lavoro non può passare come la giornata dei “casseurs”. E, invece, è proprio quello che è accaduto.

I “casseurs” saranno pure una minoranza, ma quando s’infilano nei cortei autorizzati – soprattutto quelli dei sindacati – e “accolti” senza imbarazzi da chi dovrebbe allontanarli, e fracassano tutto quanto trovano sul loro percorso, facendo il lavoro sporco che i contestatori “legali” tollerano, vuol dire che il malessere francese – da tempo su Formiche.net analizzato, anche dopo la breve luna di miele del neo-presidente con il Paese – è andato crescendo in quest’ultimo anno e Macron tra qualche giorno avrà ben poco da festeggiare. Di certo non attraverserà con la lentezza del “conquistatore” il grande piazzale del Louvre per promettere una Francia “en marche”, ma più mestamente si leccherà le molte ferite che non immaginava si sarebbe procurato in appena dodici mesi.

Gli arresti, la tensione, la paura, lo sdegno dei cittadini dopo la più nera festa dei lavoratori del dopoguerra, rimandano l’immagine di una Francia che non è la cartolina che Macron spedisce dalle capitali di mezzo mondo. Dopo il discorso al Congresso americano, accolto dai deputati e dai senatori con un entusiasmo poche volte registrato a Capitol Hill verso un capo di Stato straniero, sembrava che il presidente francese, prodigo a sua volta di ringraziamenti agli astanti sorpresi dal suo eloquio suadente e piacevolmente frastornati dalla scoperta del nuovo alleato europeo – il più affidabile, neppure paragonabile alla Merkel o alla deludente May – che sulle prime faceva un po’ lo schizzinoso con Trump, avesse seppellito una volta per tutte le molte diffidenze accumulatesi negli ultimi mesi sul suo operato e fosse pronto a risalire la china in patria.

Neppure per sogno. Chiunque ha capito che il frenetico attivismo di Macron in politica estera, che ripete pedissequamente gli schemi di Sarkozy e di Hollande, è dovuto soltanto a far dimenticare i problemi nazionali. Lontano dal cortile di casa, insomma, si sente un Napoleone, sia pure in formato mignon; dentro ai confini della nazione ingrata che non lo capisce più (ma lo ha mai capito?) si sente come prigioniero di tutti: delle opposizioni (ed è naturale), ma anche di quei cittadini che con travolgente passione soltanto un anno fa l’hanno scelto come vero “casseur” della politica francese. E la circostanza per Macron è insopportabile. Prendere applausi a Washington e a Sydney è molto più facile che prendersi a Parigi o a Marsiglia.

E perfino quegli ambienti che lo hanno “inventato” sembra che non si fidino più di lui e lo guardino come un tecnico cui manca l’apprendistato politico per poter governare un Paese come la Francia. Ne sappiamo qualcosa anche noi in Italia. Ora si sperimenta Oltralpe che aver frequentato il salotto di Rothschild, gli ambulatori dell’alta finanza e l’Ena, qualche famoso filosofo e le sale da concerto non fa necessariamente un presidente. Mitterrand, per dire, chiamato “le florentin” in ragione della sua raffinata cultura (ma anche per il suo non comune machiavellismo), amico e ammiratore di scrittori di destra e di sinistra, dava sostanza alla politica che interpretava con l’esperienza prodotta dal lungo esercizio nelle palestre più dure: la piazza, le fabbriche, i congressi, le estenuanti riunioni… Macron è arrivato all’Eliseo senza aver mai guardato negli occhi un ferroviere (l’aristocrazia operaia francese) e, sulla base di report confezionati nelle tecno-strutture del potere, ha varato riforme che nessuno vuole, neppure quei borghesi che riconoscono obsoleti taluni “privilegi”.

Si possono cogliere importanti risultati osando consapevolmente e con cosciente gradualismo, ma senza umiliare chi deve pagarne il conto: nella concezione teorica neo-liberista di Macron questa regola che ha guidato il conservatorismo anglosassone, ma anche francese, per secoli, non è contemplata. Le conseguenze sono gli squilibri sociali e l’affossamento di quella speranza breve nata in una notte di maggio soltanto un anno fa.

Che poi i black bloc si servano del disagio sociale e vi si insinuino comodamente mettendo a ferro e fuoco Parigi e molte altre città, è un deprecabile danno collaterale che si aggiunge alla disoccupazione, all’impoverimento del ceto medio, alla diffidenza crescente di coloro che vedono le antiche certezze crollare una dopo l’altra. In nome di che cosa? Dell’Unione europea che Macron diceva di volere riformare? L’attesa si fa lunga. I francesi sono stanchi di aspettare. E cominciano a credere che non è riformabile ciò che è stato costruito tanto male. Degli applausi tributati dal Congresso americano al loro presidente non gliene può fregare di meno.

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