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Il senso dell’ in-utile

Per capovolgere l’utile dobbiamo percorrere l’ “in-utile”. Si tratta, in sostanza, di camminare nel profondo di ciò che consideriamo utile e di problematizzare la nostra tentazione a “usare superficialmente” la vita. Dal significato delle parole, alla evoluzione dei processi storici, alla dignità della vita, l’ in-utile ci dice che c’è qualcosa di più profondo di ciò che vediamo e che possiamo usare. Ogni parola,  ogni accadimento e ogni vita portano dentro la forza della relazione: nulla è mai separato dal resto.

La realtà è fatta di dialoghi mai lineari. Ne viene che, per progettare (dunque per affermare la realtà in termini di ri-creazione), ciò che va fatto è di pensare pensieri complessi, creativi, liberi. Immagino la nostra vita come l’attività del contadino o del pescatore; essi sanno bene, anche senza avere una preparazione scientifica, che la terra e il mare non possono essere “usati” solo come un qualcosa da sfruttare per il massimo profitto ma che, prima di tutto, vanno com-presi. Noi siamo vita-nella-vita, relazione- in-relazione. Poi nulla, è chiaro,resta eternamente immutato: tutto si trasforma, noi stessi siamo in continua metamorfosi.

Che cos’è il progetto di civiltà se non, anzitutto, la presa d’atto che c’è un’armonia dinamica da preservare mentre compiamo le nostre scelte, quando, cioè, reciprocamente diventiamo strumento-di-relazione ? Ciò che l’in-utile fa emergere, e che l’utile per l’utile nega, è il “sentimento di globalità”. Il progetto di civiltà è il ri-trovarsi legati dal filo invisibile della relazione; e questo riguarda gli esseri umani in ciò-che-è-creato, nella realtà globalmente intesa.

Parlavo prima di “forza della relazione” ed è chiaro che si tratta di una “forza fragile” che, prima di tutto, vive nelle nostre volontà. È la forza del progetto, di una mano che, stringendo l’altra, fa incontrare due mondi “naturalmente differenti” e, molto spesso, in contraddizione e, proprio per questo, integrabili e capaci di costruire altra realtà, capaci di arricchire il mosaico della condizione umana nella realtà globale.

Quando sacrifichiamo il sentimento di globalità sopra evocato, rendiamo la globalizzazione un fenomeno solamente utile, un qualcosa che o serve ad aumentare le possibilità o serve a dominare. In ogni caso, la “globalizzazione solamente utile” è come un medico che non percepisce le complessità del paziente che ha di fronte, che non coglie le dimensioni “ulteriori” che scaturiscono da una malattia da sconfiggere. Il paziente, come la realtà, non ha solo bisogno di essere curato ma ha anche bisogno di ri-trovare la vita, di ri-cominciare a camminare, esattamente come un bimbo che si affaccia alla vita.

Si tratta di passare da una globalizzazione solamente utile a una “globalizzazione davvero globale”. Si tratta di ri-dare senso all’immenso spazio di senso che abbiamo svuotato; attraverso il progetto di civiltà, intendo ri-flettermi nel campo sconfinato del “senso perduto”, anche per ri-pensare decisioni pertinenti in un tempo che ha elevato, noi complici, la superficialità a dogma.

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