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Che cosa potrebbe succedere in Iran se Trump esce dal Nuke Deal?

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“Potremmo avere dei problemi”, il presidente iraniano Hassan Rouhani ha commentato così l’imminente decisione del suo omologo americano Donald Trump sul Nuke Deal. Ieri su Twitter Trump ha annunciato che alle 14 (le 20, ora italiane) farà sapere personalmente dalla Casa Bianca la sua decisione sul rimanere o meno all’interno dell’accordo – sembra un controsenso, visto che tre anni i negoziati per il congelamento del programma nucleare militare iraniano sono stati fortemente spinti dagli Stati Uniti, che si sono portati dietro sul punto i partner europei, ma le cose sono cambiate come è cambiato il presidente.

Sembra quasi scontato che Trump scelga di allentare in qualche modo la presenza americana nell’intesa multilaterale chiusa nel luglio del 2015, e questo creerà problemi non solo a Rouhani, ma anche agli alleati europei e all’Onu (la firma sul deal è stata posta dai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, dalla Germania e dall’Unione Europea).

Meno chiare le modalità e tempi: probabile ritornino sanzioni economiche, quelle sollevate proprio dall’intesa che l’amministrazione Trump potrebbe re-introdurre, ma soltanto in parte. Secondo quanto scritto dal Washington Post, infatti, è possibile che Trump allenti sulla sospensione progressiva delle sanzioni, fermandosi però al passo precedente dalla completa ricusazione dell’accordo. Un modo per pressare l’Iran e ottenere un cambio un “accordo migliore” o un comportamento migliore da parte di Teheran.

Prima che gli americani escano di fatto dall’intesa, c’è una tempistica necessaria di almeno qualche mese, anche semplicemente per risolvere le beghe legali collegati: dunque una data possibile a cui rimandare tutto è luglio 2018, quando scatterà il nuovo termine per la scadenza di riconferma al buon procedere del deal – per esempio, tra le sanzioni che per il momento potrebbero restare in essere come rallentamento americano sull’accordo, quelle varate dal Congresso nel 2012, che richiedono a paesi terzi di ridurre  le importazioni di petrolio iraniano e se non vogliono rischiare sanzioni Usa sulle loro banche (un colpo basso per stati alleati come la Francia, che dopo aver messo la firma sull’accordo ha lanciato la sua Total nel business iraniano). Forse anche per questo il prezzo del petrolio per la prima volta è saltato sopra i 70 dollari al barile, mai così alto dal 2014.

Possibile anche che Washington scelga di introdurre nuove sanzioni, magari più selettive, perché crede che l’Iran sta continuando a spingere il proprio programma atomico in forma clandestina – pensiero rafforzato da alcune rivelazioni del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che pochi giorni fa ha presentato in uno show televisivo alcune informazioni raccolte dalla sua intelligence sulle malefatte iraniane che avrebbero dovuto servire da pistola fumante (anche se in molti le hanno ritenute insufficienti e soprattutto datate).

In più Washington vuol colpire l’Iran perché, come ha spiegato mesi fa Trump, è lo “spirito” che manca: ossia, Teheran può anche muoversi correttamente all’interno dei dettami imposti dal deal (Netanyahu a parte, per due volte l’amministrazione americana di era Trump ha già confermato, attraverso il sistema di controlli trimestrali, che gli iraniani stanno rispettando l’accordo), ma resta un attore canaglia inaffidabile.

In particolare per due ragioni: primo, la diffusione delle milizie armate con cui gli ayatollah giocano la proprio influenza in vari stati del Medio Oriente (gli attori proxy in Libano come Hezbollah, o in Siria, o in Iraq e nello Yemen), un’influenza velenosa, divisiva, mirata contro ebrei, sunniti, occidentali; secondo, il programma missilistico clandestino con cui Teheran starebbe provvedendo a costruire i vettori che in futuro potranno ospitare le testate nucleari, una volta scongelato il deal.

Scorporare il rinnovo o il non rinnovo del deal dal contesto regionale è dunque impossibile, sopratutto adesso che la Siria è quasi diventata una piattaforma militare iraniana – proprio grazie a quel gioco di influenze armate con cui Teheran ha inviato milizie sciite a sostenere il regime (ottenendo un credito da Damasco). L’Arabia Saudita ha adesso come obiettivo centrale di politica estera contrastare l’espansionismo iraniano, Israele idem (in Yemen e Siria, Arabia Saudita e Israele combattono rispettivamente contro l’Iran: sono guerre proxy, ma il confronto è diretto).

Washington con la postura dura nei confronti della Repubblica islamica s’è fatto ponte tra Riad e Tel Aviv (mondi finora distanti ora uniti contro un nemico comune) e ha magnetizzato di nuovo entrambe le partnership, annacquate negli ultimi anni proprio perché gli americani lavoravano per il deal, mentre i due principali alleati mediorientali lo ritenevano una via con cui l’Iran avrebbe potuto ripulirsi l’immagine e spingere ancora di più i proprio interessi.

Il punto è questo per gli Stati Uniti, e per Arabia Saudita e Israele: l’accordo è visto come una via con cui l’Iran otterrà una normalizzazione, ma i tre alleati non accettano che Teheran possa uscire dallo status di canaglia. Non è tanto la questione del programma atomico in sé (che avrà i suoi tempi, perché l’Iran deve ancora svilupparlo bene): israeliani, sauditi, americani, in Siria, Iraq, Yemen, Libano, sentono quella presenza iraniana e la considerano un elemento acido, velenoso, forse peggiore della Bomba.

Un elemento impossibile da ignorare perché parte di un piano politico aggressivo. E allora il deal diventa il target principale da colpire per evitare che attraverso quello la Repubblica islamica torni a essere un interlocutore in grado di fare business con attori internazionali.

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