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Svolta filo Putin? Molti rischi, pochi vantaggi. Parla l’ambasciatore Minuto Rizzo

Il mondo ci guarda e attende segnali più chiari sulla nostra politica estera. Dietro l’angolo c’è il rischio di erodere la credibilità conquistata con una linea storica che dal 1945 è stata coerente e mai smentita. Lasciare i binari dell’atlantismo e dell’europeismo sarebbe un errore da pagare a caro prezzo. È il monito dell’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo, presidente della Nato Defense College Foundation e vice segretario generale della Nato dal 2001 al 2007. Mentre Luigi Di Maio e Matteo Salvini continuano a lanciare messaggi ambigui, tra continuità e rottura, e mentre dagli alleati emerge più di qualche preoccupazione, a lui abbiamo chiesto quali potrebbero essere i rischi di uno shift vero la Russia di Putin.

Ambasciatore, i messaggi del nuovo governo su Nato e Russia sono sembrati poco chiari, alcuni di continuità, altri di rottura. Lei si è fatto un’idea di quello che sarà l’approccio dell’esecutivo?

Bisogna ammettere che c’è un po’ di confusione. Probabilmente, alcune delle persone che si stanno esprimendo sull’argomento, anche in buona fede, non conoscono i termini della questione. L’esempio più evidente sono le sanzioni alla Russia. La loro rimozione viene giustificata sulla base dei “buoni rapporti” con Mosca, ma questa non è una novità per l’Italia e soprattutto non tiene conto del perché le sanzioni sono state introdotte. È bene ricordare i fatti: dopo l’occupazione della Crimea e del Donbass da parte di insorti e filo-russi, furono apposte dall’Ue delle sanzioni piuttosto simboliche, riguardanti ad esempio l’accesso ai conti all’estero per un certo numero di persone. Poi, l’abbattimento dell’aereo malese sui cieli dell’Ucraina con circa 300 persone a bordo – che una commissione internazionale ha recentemente attribuito a un sistema d’arma russo – ha generato una ondata emozionale che ha portato a una seconda tranche di sanzioni più serie. In ogni caso, si tratta di sanzioni dell’Unione europea, non della Nato, e vengono rinnovate ogni sei mesi. Con la grande attenzione alla politica interna, non sono sicuro che tutto questo sia chiaro al nuovo governo, e perciò tali dinamiche sembrerebbero affrontate in maniera approssimativa.

Capovolgendo il punto di osservazione, come è interpretata tale ambiguità dai nostri alleati?

Anche su questo c’è un po’ di confusione. Spesso, nel dibattito interno non ci rendiamo contro che l’Italia è un Paese importate, fondatore della Nato e dell’Unione europea. Quello che fa e che dice non è uguale a quello che fanno e dicono Paesi come Slovenia, Lituania e Portogallo, con tutto il rispetto. Poi, tanto in ambito europeo, quanto in quello atlantico, l’Italia è sempre stata un membro correttissimo. Certo, ha conservato le proprie propensioni naturali (come il rapporto con la Russia, che non è una novità di questo governo), ma si è unita sempre al consenso generale sulle questioni collettive.

Eppure sembra che alcune dichiarazioni abbiamo suscitato preoccupazioni in sede Nato.

Questo è vero, soprattutto per quelle espresse dal presidente del Consiglio in Parlamento, avvenute in un momento di grande solennità. Che il nuovo governo dichiari pubblicamente di voler togliere le sanzioni è una cosa che non può passare inosservata. Qualora al prossimo rinnovo delle sanzioni l’Italia si opponesse, creerebbe davvero un crisi all’interno dell’Ue. È stato dunque la solennità del momento a generare le obiezioni in campo internazionale. Diverso sarebbe stato se si fosse detto di voler promuovere il dialogo con la Russia e di portare il ciclo di sanzioni alla loro fine naturale di comune accordo con gli alleati.

Intravede il rischio di un pesante shift dell’Italia verso Mosca?

Il rischio c’è. Soprattutto se si prendono sul serio le parole dei leader della nuova colazione di governo. Bisogna però stare attenti a non superare le linee rosse. All’interno di un’alleanza, ogni Paese ha le sue sensibilità e le sue inclinazioni, l’importante è non venir meno nel momento delle decisioni importanti.

Quali sono i rischi reali? È immaginabile uno scenario in cui diventiamo la nuova Turchia?

Francamente non credo che arriveremo a questo. L’impressione è che in Italia la classe politica abbia spesso l’abitudine di parlare al pubblico italiano senza rendersi conto del quadro internazionale. In ogni caso, se ci fosse uno shift ad est, ciò sarebbe molto pericoloso per una linea storica che parte dal 1945. Sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, il nostro Paese ha avuto una linea di politica estera coerentissima e mai smentita: europeismo e atlantismo, da perseguire insieme perché ambedue rispondono all’interesse italiano. Non credo che il governo voglia cambiare tutto questo. Cosa ci guadagnerebbe? Già esportiamo piuttosto bene in Russia, con incidenze negative delle sanzioni che sembrano già sparite. Quali vantaggi avremo nell’allearci con i Paesi dell’est?

Oltre alle sanzioni, c’è il tema delle missioni internazionali. Anche qui, sembra mancare una chiara linea di governo. Si è fatto un’idea su cosa avverrà? C’è la possibilità di ridimensionare un impegno che ha sempre garantito peso politico e credibilità al Paese?

Sì, intravedo questo rischio, soprattutto se alcune voci dovessero diventare prevalenti. Sarebbe una mossa sbagliata poiché la partecipazione alle missioni di pace ha sempre dato al nostro Paese un peso maggiore di quello che avrebbe normalmente. Nella politica internazionale, non contano le parole, ma i fatti. Se un grande Paese, membro fondatore, contribuisce con impegno e senso di responsabilità, è molto apprezzato. E ciò fa comodo all’Italia poiché dà prestigio. Sull’Afghanistan, ad esempio, non vedo così terribile l’ipotesi di restare.

Ci spieghi meglio.

Potevo capire il sussistere di certe sensibilità finché l’operazione prevedeva la possibilità di combattimento. Ma questa è terminata nel 2014 e forse anche qui manca consapevolezza. Oggi, la missione Nato è dedicata all’addestramento e al supporto delle Forze armate e di sicurezza afghane, e non prevede la lotta ai talebani, per lo più ad Herat, la zona più tranquilla del Paese dove è stanziato il nostro contingente. Partecipare a questo sforzo vuol dire contribuire a rafforzare un Paese. Siamo lì dal 2003 e non vedo ragione per interrompere adesso, soprattutto in un momento in cui gli Stati Uniti hanno deciso di restare. D’altronde, la nostra presenza fa molto piacere a Washington perché rappresenta il rafforzamento della politica americana. Insomma, andare via dall’Afghanistan sarebbe un errore.

Ma nel contratto di governo si parla di una rivalutazione delle missioni sotto il profilo del rilievo per l’interesse nazionale.

Certo, ma occorre stare attenti a definire l’interesse nazionale. I padri fondatori l’hanno individuato nell’adesione ai grandi progetti dell’Unione europea e dell’Alleanza Atlantica, nonché nella condivisione di certi valori. Non si può decidere l’impegno internazionale sulla base della vicinanza geografica o dei costi, perché altrimenti non ci sarebbero alleanze. Serve la partecipazione a tutti i grandi principi perché così facendo ci si guadagna, non ci si perde. E l’Italia è rispettata come membro della Nato perché ha sempre fatto quello che doveva fare. Dovremmo iniziare a comportarci come dei leader e non sentirci isolati. Se il nostro interesse è una maggiore attenzione ai Paesi del nord Africa e Medio Oriente, dobbiamo capire che per ottenerla serve la solidarietà dell’intera Alleanza. Per farlo, dobbiamo anche tener conto degli interessi altrui, e l’Italia l’ha sempre fatto bene, ad esempio con i soldati e gli assetti impegnati nei Paesi baltici e in Polonia.

Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha annunciato che lunedì sarà a Roma per incontrare Conte. Crede che la posizione italiana finirà per convergere verso il tradizionale dual track (deterrenza e dialogo) dell’Alleanza verso Mosca?

Mi sembrerebbe una cosa di buon senso. All’interno della Nato ci sono sensibilità diverse. I Paesi baltici e la Polonia sono più preoccupati e preferirebbero solo la prima traccia relativa a difesa e deterrenza. Il dual track è già un buon compromesso. Per quanto riguarda le sanzioni, sono state introdotte per un fatto specifico, non perché odiamo la Russia. Tutti, nel lungo periodo, sperano in un rapporto con Mosca, anche perché su altri aspetti, come la lotta al terrorismo, c’è una grande convergenza. A ben vedere, i problemi tra la Nato e la Russia riguardano l’ex spazio dell’Urss. Con il crollo dell’Unione sovietica, si sono creati Stati indipendenti su linee che erano state previste per regioni interne, e questo ha creato problemi non ancora risolti, senza i quali non ci sarebbero motivi di frizione, come dimostra la creazione nel 2002 del Consiglio Nato-Russia.

Per concludere…

Per concludere, spero che alcune dichiarazioni recenti siano state fatte in maniera leggera. Bisogna tener conto che siamo sempre stati vicini agli Stati Uniti. Può piacere o meno, ma l’Italia gode negli Usa di un grande prestigio come Paese alleato, e il suo impegno della Nato ne è per Washington un’importante conferma. Sarebbe un peccato rovinare questo quadro poiché non ci guadagneremmo nulla.

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