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In Iran torna l’incubo delle proteste. È di nuovo crisi economica (post-accordo nucleare)

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In Iran aumentano le proteste contro la crisi economica. Il presidente Hassan Rohani ha cercato di calmare la popolazione spiegando che “tutti i bisogni sono coperti”, ma gli iraniani sono preoccupati. La fine dell’accordo nucleare potrebbe peggiorare una situazione già critica.

Per due giorni consecutivi il Gran Bazar di Teheran ha chiuso le porte come protesta per l’inflazione e la svalutazione della moneta, secondo l’agenzia iraniana Fars. L’inflazione è di circa 10 per cento e la disoccupazione del 13%.

A fare più pressione ci sono due terzi dei parlamentari iraniani, che hanno firmato una lettera diretta al presidente Rohani per invitarlo a modificare la sua squadra economica. “Gli scarsi risultati dei massimi leader economici negli ultimi anni – si legge nella missiva – hanno causato un aumento di sfiducia nei confronti della popolazione rispetto alle decisioni annunciate o attuate in materia economica”.

E gli iraniani hanno ragione a preoccuparsi. Molti affari che hanno spinto la crescita degli ultimi anni rischiano di tramontare. Il presidente americano Donald Trump ha invitato ai Paesi alleati a non importare petrolio iraniano. Con un comunicato ufficiale, il Dipartimento di Stato degli Usa ha dichiarato che spera tagli rilevanti negli scambi petroliferi con Teheran entro il 4 novembre.

L’avvertimento arriva dopo la decisione del presidente Trump di abbandonare l’accordo nucleare con l’Iran siglato nel 2015. Il capo di Stato americano aveva dato una deadline entro 180 giorni per ripristinare le sanzioni. Da quanto si legge in un’agenzia di Reuters, le sanzioni potrebbero declinare anche contro i Paesi alleati degli Usa che ignorino l’invito e continuino ad acquistare greggio iraniano.

Secondo l’Opec, l’Iran esporta circa 800mila barili di petrolio al giorno in Europa, mentre nella zona Asia-Pacifico circa 1,5 milioni di barili al giorno. Se l’Europa smette di comprare petrolio a Teheran, gli iraniani dovranno ricollocare il greggio in altri Paesi. Probabilmente non ci riusciranno totalmente e taglieranno la produzione di circa 500mila barili al giorno.

L’ipotesi di una riduzione dell’offerta sul mercato petrolifero ha provocato l’aumento del prezzo del 3%. Il petrolio Brent è salito del 2% in un’unica sessione, superando i 76 dollari il barile, mentre il West Texas è aumentato il 3% collocandosi a 70 dollari il barile. Un tetto che era stato raggiunto quattro anni fa.

Il New York Times sottolinea che l’effetto negativo colpirà le piccole e medie imprese che sono riuscite a crescere grazie all’accordo iraniano. Con l’aumento del prezzo del petrolio, salgono i prezzi della benzina, gas, trasporti, alimenti e servizi.

Pechino ha immediatamente respinto la proposta di Trump di bloccare l’import di petrolio iraniano. Secondo il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Lu Kang, il Paese continuerà a cooperare sull’energia con i Paesi del Medio Oriente: “Non dovremmo essere criticati neanche se manteniamo i normali scambi con l’Iran in campo, incluso quello dell’energia. È un Paese amico”. Ma la solidarietà cinese potrebbe non bastare.

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