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Un ponte chiamato Fulbright. Lezione di 70 anni di soft power fra Italia e Usa

155 Paesi, 294.000 partecipanti, 7.500 borse di studio. Sono i numeri impressionanti del programma Fulbright, il piano di scambi culturali che dal 1948 crea un ponte fra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Settant’anni fa grazie alla visione di un senatore dell’Arkansas, William Fulbright, il dipartimento di Stato americano istituiva la commissione che avrebbe stanziato i primi fondi per permettere a studenti americani ed europei di visitare i rispettivi Paesi e far tesoro della loro cultura e tradizione. Settant’anni fa il segretario di Stato George Marshall dava il via al piano di aiuti finanziari che avrebbe cambiato il volto dell’Europa risollevandola dalle macerie della II Guerra Mondiale. Piano Marshall e Commissione Fulbright, due facce della stessa medaglia. Una buona parte del soft power americano in Italia si deve infatti alla chance che il programma Fulbright ha dato ai giovani talenti nello Stivale di visitare gli States, studiare nei più prestigiosi atenei americani, solidificare rapporti umani e lavorativi fra le due sponde dell’oceano.

L’AMICIZIA ITALIA-USA NELLE PAROLE DI EISENBERG E MOAVERO

Questo giovedì la Farnesina ha voluto celebrare il frutto italiano dei settant’anni del programma Fulbright ospitando l’ambasciatore americano Lewis Eisenberg assieme a un gruppo di imprenditori, intellettuali e studenti che hanno preso parte al programma di scambi e che a quel senatore dell’Arkansas devono la loro straordinaria carriera. Ad accoglierli il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, che al MAECI si è insediato solo da due settimane ma già si muove e parla come un vero padrone di casa. Liquidata in fretta ai microfoni dei cronisti la questione Aquarius, confermando l’avvenuto disgelo fra Roma e Parigi, Moavero ha accolto i giovani borsisti con un discorso a braccio. “Il sistema Fulbright nutre generazioni di studenti in tutto il mondo. È importantissimo rimanere in questo sistema, che dà chances uniche di studiare prestigiose università statunitensi e di consolidare quei legami di profonda amicizia, identità di vedute e posizionamento internazionale che il nostro paese a partire dal secondo dopoguerra ha sempre avuto”. Parole nette, e ben soppesate, di un ministro che ha dato prova del suo filo-atlantismo fin dai primi giorni in carica, smentendo i timori di un riposizionamento italiano nel sistema di alleanze. “Il programma ci permette di far conoscere la nostra realtà ai nostri amici americani” ha continuato Moavero, “di smentire gli stereotipi negativi sul nostro conto e confermare quelli positivi”. All’entusiasmo di Moavero ha fatto eco quello dell’ambasciatore Eisenberg. Non potrebbe essere altrimenti, visto che lui stesso in giovinezza ha usufruito di una borsa Fulbright. “Il mutuo interesse fra i due popoli ha prodotto un programma che offre opportunità di studio e di apprendimento per scambiare idee e trovare soluzioni condivise a livello internazionale. Fulbright è sempre stato e continuerà ad essere una priorità al 100% per il governo statunitense”. L’Italia, ha ricordato Eisenberg, vanta delle eccellenze fra i Fulbright Scholars. Non solo politici e giuristi come Lamberto Dini e Giuliano Amato, ma anche tre premi Nobel per la fisica: Tullio Regge, Carlo Rubbia e Riccardo Giacconi.

Ogni programma di scambio culturale che si rispetti beneficia entrambe le parti in causa. Non fa eccezione il Fulbright, che infatti ha lasciato un segno indelebile anche negli States. A confermarlo è l’ambasciatore italiano a Washington Armando Varricchio, che ha fornito qualche numero sul fascino esercitato dall’Italia sugli studenti americani. “Oggi ci sono 15 mila ricercatori e scienziati italiani che operano negli Usa e che sono inseriti ai più alti livelli della societa’ statunitense”. È vero però anche il contrario: “L’Italia è un paese che attrae moltissimo negli Stati Uniti, come dimostra il numero crescente di giovani statunitensi che vogliono acquisire competenza trascorrendo periodo di studio e di ricerca nel nostro paese”. Un caso illustre è stato raccontato da Anita McBride, già inseparabile assistente del presidente George Bush e della first lady Laura, oggi nel board direttivo del Fulbright Foreign Scholars. Si tratta di Milton Glaser, uno dei più grandi grafici contemporanei, autore del celebre logo “I Love New York” che ricopre magliette e cappelli di tutto il mondo. Chissà cosa sarebbe stato di lui se una borsa Fulbright non gli avesse permesso di studiare all’Accademia delle Belle Arti di Bologna.

LE ECCELLENZE ITALIANE

La seconda parte della mattinata è stata tutta dedicata alla celebrazione dei talenti italiani che hanno contribuito personalmente al programma Fulbright. Tra le eccellenze premiate da Eisenberg e Moavero Ermenegildo Zegna, ad dell’omonima casa di alta moda italiana, il proprietario dell’Hassler di Roma Roberto Wirth e il direttore della National Italian American Association (Niaf) Paolo Catalfamo. Ai riconoscimenti è seguito un dibattito, moderato dal direttore del Centro Studi Americani Paolo Messa, che ha visto protagonisti alcune delle più illustri menti made in Italy. Volti celebri del mondo accademico, politico e scientifico che a distanza di anni dalla loro borsa Fulbright hanno voluto dire grazie agli amici americani per l’opportunità ricevuta. A partire da Franco Ferrarotti, padre della sociologia italiana, il primo a ricevere una cattedra in sociologia nello Stivale. L’occasione di partire alla volta degli States arrivò quasi per caso, nel 1950, un anno buio per l’allora giovane studente di Milano: il suo amico Cesare Pavese si era appena tolto la vita in una camera dell’albergo Roma a Torino e il suo capo di lavoro, Adriano Olivetti, aveva appena sofferto un infarto. L’esperienza americana mise Ferrarotti a contatto con un mondo sconosciuto in Europa, con i libri di Talcott Parsons e la scuola di Palo Alto, ponendo le basi per la sua straordinaria carriera accademica una volta tornato in Italia. Non da meno è la storia di Sofia Corradi, conosciuta come “mamma Erasmus” per aver dato vita al programma di scambi culturali più famoso al mondo. Grazie alla Fulbright riuscì a studiare alla prestigiosa Columbia University nel 1957, ma una volta tornata in patria nessuno volle riconoscerle il master. Da lì nacque la scintilla dell’Erasmus, punta di diamante del soft power Ue, voce sempre più importante nel bilancio comunitario. Il ciclo delle numerose testimonianze si è chiuso con Nina Tandon, la trentottenne star mondiale dell’ingegneria biomedica. La Tandon è l’altro volto del programma Fulbright fra Italia e Usa. Prima di laurearsi all’MIT di Boston ha infatti fatto tappa all’università di Roma Tor Vergata dal 2003 al 2004. Nel 2012 hA fondato EpiBone, la prima azienda al mondo specializzata nella crescita ossea per la ricostruzione scheletrica, un punto di riferimento per l’ingegneria biomedica mondiale.

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