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Processo alla (vecchia) politica. Per uscirne non basterà cambiare nome. Parla Enrico Mentana

Enrico Mentana (direttore Tg La7)

Sarà anche stata una scossa di assestamento, ma l’onda d’urto di queste elezioni amministrative è destinata a farsi sentire a lungo. Il voto sul territorio ha confermato il responso del 4 marzo, accelerandone le dinamiche: la caduta libera del Pd, il volo (di Icaro?) della Lega salviniana, l’evanescenza del partito di Silvio Berlusconi. E i Cinque Stelle? Semplicemente non pervenuti, salvo qualche vittoria minore. Mentre al Nazareno urge una revisione dei contenuti, non solo dei nomi, Matteo Salvini deve prendere atto di un centrodestra unito che, dicono i sondaggi, forse ha i numeri per governare da solo. In quattro mesi è stata riscritta da capo la geografia elettorale italiana. Il terremoto si fermerà qui o questo è solo l’inizio? Formiche.net lo ha chiesto al direttore del tg LA7 Enrico Mentana.

Direttore dopo i ballottaggi di domenica ha ancora senso parlare di geografia elettorale?

Non più. È evidente che siamo in una fase di terremoto politico. È un ciclo sismico che ancora non si è concluso e sta terremotando, passi la metafora infelice, la parte novecentesca della politica.

Qual è a suo parere la sconfitta più difficile da digerire per la sinistra?

Non ha più senso parlare di sconfitta della sinistra. Con la fine del vecchio secolo sono cambiati tutti i paradigmi politici, sinistra o destra cambia poco. Il dato da rilevare è che la maggior parte dei cittadini sceglie di abbandonare il passato.

I voti di Fratelli d’Italia e Forza Italia sul territorio sono tornati utili. Davvero il centrodestra è solo Matteo Salvini?

Chi può dirlo. Per il momento c’è solo una voce in campo. In teoria la Lega è al governo, Forza Italia all’opposizione e Fratelli D’Italia all’astensione ma nessuno se ne accorge. L’unica voce che si sente è quella di Matteo Salvini.

E i Cinque Stelle come ne escono?

I Cinque Stelle sanno che si sta creando, per esclusione, un nuovo bipolarismo di cui loro saranno parte. Stiamo assistendo, a tappe forzate, alla creazione di un sistema bipolare in cui tutto il resto è, per ora, assente e silente.

Però il voto di domenica conferma che il Movimento non ha roccaforti sul territorio.

Ma le roccaforti non ci sono più, e soprattutto non servono più. Il vecchio voto organizzato è scomparso.

Ci spieghi meglio.

Superiamo per un attimo le categorie di sinistra e destra e partiamo da quel che è successo domenica. Se ai ballottaggi va a votare il 40% degli elettori vuol dire che c’è ormai un rapporto col voto che non ha nulla a che vedere con sezioni, militanze, tradizioni. Siamo di fronte allo stesso cambiamento di quattro anni fa. Nel 2014 Matteo Renzi era l’uomo del 41%. Forza Italia era destinata a scomparire dopo la condanna di Berlusconi e i Cinque Stelle sembravano impossibilitati a governare.

E adesso?

A quattro anni di distanza tutte le variabili sono cambiate, salvo una: Berlusconi è ancora fuori gioco. Se non esiste un centrodestra moderato la Lega non ha più confini a destra né presidi territoriali precisi se non quelli al Nord.

Il Pd ha una via d’uscita?

Il problema del Pd è che se tace diviene irrilevante, se parla ricorda una stagione politica ormai passata. Difficile che il centrosinistra riesca a risollevarsi se non troverà interpreti completamente nuovi.

Carlo Calenda sta lavorando al Fronte Repubblicano..

Non basta inventare nuovi nomi. I partiti della Prima Repubblica ebbero la stessa tentazione nei primi anni ’90, quella di trovare un nuovo nome, di cambiare perimetro. I più beffardi rispondevano: “vi riconosceremo dalle impronte digitali”. Un ex dirigente del Pd può anche entrare in un “Fronte Repubblicano” ma rimarrà lo stesso. E lo riconosceranno.

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