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Prima il ritiro dall’accordo sull’Iran, poi dal Consiglio dei Diritti Umani: gli Usa e un nuovo multilateralismo?

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Gli Stati Uniti si sono ritirati dal Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, dopo aver avvertito ad ottobre che si sarebbero ritirati dall’Unesco. Lo hanno annunciato il Segretario di Stato Mike Pompeo e l’Ambasciatrice all’Onu Nikki Haley. La ragione principale si dice essere il trattamento impari di Israele, ma non è che un aspetto di una più ampia politica che riconsidera il multilateralismo.

Mike Pompeo, nel discorso del ritiro, ha detto che in via di principio “gli Stati Uniti non si oppongono al multilateralismo”, ma la politica multilaterale ha portato a un indebolimento degli interessi e dei valori di cui gli stessi Stati Uniti si fanno difensori.

Prima della seduta del Consiglio di Sicurezza sulla proposta di risoluzione avanzata da Yemen e Turchia che condannava gli Usa per lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, Nikki Haley aveva messo in guardia gli alleati: “prenderemo i nomi di chi vota in favore della risoluzione” e alla seduta ha detto che “non ci aspettiamo di essere colpiti dagli stessi Stati che aiutiamo”. Di recente l’Ambasciatrice Usa ha anche commentato che è inammissibile per gli Stati Uniti che i suoi più vicini alleati, con cui si armonizzano politiche internazionali, votino in senso opposto alla linea americana.

Pompeo e Haley hanno puntato sull’ipocrisia di un’istituzione che non si spende abbastanza per difendere i diritti umani e che ammette Stati come Congo, Venezuela e Iran a posizioni di rilievo. Non è una mera posizione americana. L’organizzazione UN Watch e il progetto di ricerca “Human Rights Voices” hanno ampiamente documentato come il Consiglio dei Diritti Umani e altre agenzie Onu siano state strumentalizzate per avanzare una politica anti-occidentale e anti-americana che non ha nulla a che vedere con i diritti umani. Israele in questo senso non è che un esempio tra tanti.

La decisione Usa può essere vista come parte dell’insieme della nuova politica internazionale: Pompeo cambia rotta. Lo si è visto con l’Iran, con la Corea del Nord e ora anche all’Onu.

Prima gli Stati Uniti si ritirano dall’accordo sul nucleare iraniano, annunciando una politica di sanzioni che renderà impossibile mantenere l’accordo vigente, costringendo gli alleati europei a operare una scelta per arrivare a un nuovo accordo che prenderà in considerazione tutte le minacce iraniane. La strategia sulla Corea del Nord, il cosiddetto approccio “escalte to de-escalte”, cioè perseguire una politica di pressioni per far cedere l’avversario e arrivare al miglior accordo possibile, in quest’ottica, ha avuto successo. In quest’ottica, il multilateralismo impedisce l’esercizio della condizionalità e indebolisce la capacità di intervento diretto e le prospettive di cambiamento.

Un approccio simile è quello all’Onu. Gli avvisi dell’ambasciatrice Halley non sono mancati, ma non sono stati evidentemente presi in seria considerazione. Nel suo discorso sul ritiro ha anche detto “a porte chiuse in molti sono d’accordo con noi”, ma gli Stati Uniti sono gli unici ad aver avuto il coraggio di agire. Il commento pare chiedere agli alleati di uscire allo scoperto e prendere posizione a fianco degli Stati Uniti.

La politica americana impone nell’immediato un’analisi più seria dei cambiamenti da apportare ad agenzie in cui operano logiche e politiche che confliggono con gli interessi e i valori che devono per loro mandato difendere.

Si può interpretare il cambiamento come un ulteriore passo verso il bilateralismo, come un rafforzamento del potere normativo degli Usa (perlomeno nella politica valoriale dei diritti umani), o come un isolazionista “con noi o contro di noi”.

Nel lungo termine, la politica americana impone anche una rivisitazione del multilateralismo, che ha portato a risultati che l’amministrazione Trump vede come contrari agli interessi americani. Tale rivisitazione tocca l’Europa, le cui divisioni tra Bruxelles e gli Stati membri saranno decisive nel riposizionamento dell’alleanza transatlantica. In secondo luogo, tocca anche gli alleati nelle varie regioni che l’America sostiene e che saranno sempre più soggetti alle pressioni (o condizionalità) che l’amministrazione Trump non teme di esercitare. Infine, agli avversari degli Usa, la cui risolutezza rompe sia con la mitezza del laissez-faire sia con la politica di interventismo militare.

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