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Conte a Washington, F-35 e missioni internazionali. L’agenda della commissione Difesa della Camera spiegata da Gianluca Rizzo

L’incontro che si è consumato alla Casa Bianca tra Giuseppe Conte e Donald Trump rafforzerà senza dubbio i legami tra Roma e Washington, soprattutto sugli aspetti economici e della sicurezza, a prescindere dalle differenze di vedute che resta su altre questioni, a partire dall’Iran. Parola di Gianluca Rizzo, presidente della commissione Difesa della Camera in quota M5S, a cui abbiamo chiesto di commentare la visita del premier negli Stati Uniti, ma anche i più attuali temi per il settore, dalla partecipazione italiana al programma F-35 alle missioni internazionali. Se sul caccia di quinta generazione procede la “valutazione accurata” già annunciata dal ministro della Difesa Elisabetta Trenta, sugli impegni militari all’estero l’agenda sembra ormai chiara, con la riduzione del contingente in Afghanistan e un focus maggiore sulla sponda nordafricana.

Presidente, il premier Giuseppe Conte è stato a Washington per incontrare Donald Trump. Gli Stati Uniti restano il principale partner internazionale per l’Italia?

Sono molto fiducioso che l’incontro tra il presidente Conte e il presidente Trump rafforzerà i nostri reciproci legami. È interesse degli Stati Uniti come dell’Italia e dell’Unione europea che queste relazioni si sviluppino in modo leale e corretto. Ci sono dei dossier delicati sul tavolo, dagli accordi economici a quelli per la sicurezza dei nostri cittadini. Gli Usa sanno che l’Italia non si è mai tirata indietro di fronte alle proprie responsabilità: siamo il secondo paese Nato che ha il maggior numero di propri militari impegnati in missioni internazionali di pace. Questo non significa che su tutto abbiamo univocità di vedute. La questione della disdetta unilaterale degli accordi sul nucleare iraniano per esempio è una di queste. Ma è compito di un Paese alleato e amico come l’Italia portare elementi e ragionamenti in grado di convincere la Casa Bianca a tornare indietro sui suoi passi o almeno a non ostacolare l’attuazione degli accordi stessi.

Alla Casa Bianca si è parlato sicuramente anche dei dossier relativi alla Difesa. Quanto è importante la cooperazione in questo campo?

La cooperazione nell’ambito della difesa è per noi strategica. La percezione stessa di minaccia è cambiata in questi anni, ma ancora non abbiamo sufficientemente ammodernato e adeguato le risposte. Il terrorismo lo combatti sicuramente sul piano militare, ma se ti mancano idee e politiche economiche per separare il consenso che, in alcune realtà particolarmente povere ed arretrate, ha il fondamentalismo islamico, è chiaro che non è sufficiente. Daesh per esempio in Iraq e Siria ha dovuto cedere le sue roccaforti ma è ancora latente e diffuso in quelle società. Se non sviluppi un piano di pace includente, che se non sostieni la società civile e la ricostruzione di forze armate rappresentative di tutte le etnie e sensibilità prima o poi quel mostro ritorna. È sul versante dell’edificazione di un sistema di giustizia – che può avvenire solo con il protagonismo diretto di quei popoli – che fino ad oggi abbiamo fallito. Come si vede non è solo una questione militare.

Nei rapporti tra Italia e Stati Uniti anche gli F-35 stanno facendo parlare di sé in queste settimane. Il ministro Trenta ha più volte ribadito “una valutazione accurata” sul programma, oggi ribadita da Conte di fronte a Trump. Su cosa si deve basare, secondo lei, questa valutazione?

Noi siamo stati contrari agli F-35 non per una impostazione ideologica, ma per precise motivazioni anche in ordine alla nostra concezione di difesa. Ora, il governo del cambiamento ha ereditato un piano di acquisti cominciato venti anni fa, e alcuni esemplari di questo caccia sono già stati acquisiti. La proposta della ministro Trenta è ragionevole: vediamo come stanno le cose, cosa è utile ultimare e cosa invece risparmiare e come comunque riusciamo a garantire l’ammodernamento dei mezzi della nostra Aeronautica militare. È un tema dove c’è una forte sensibilità nell’opinione pubblica e in tante persone che ci hanno votato. Ovvio che seguiremo passo passo la vicenda cercando di trovare la soluzione più utile al Paese. D’altronde, a me piacerebbe discutere con i nostri alleati americani anche alcune vicende legate all’uso delle basi di Sigonella e di Niscemi. Spero che avremo occasione di confrontarci.

Anche per le missioni internazionali, si prevede (come scritto nel contratto di governo) una rivalutazione sulla base dell’interesse nazionale. Si tradurrà in una riduzione dell’impegno italiano o piuttosto in un riorientamento?

Tutti gli analisti ci dicono che la priorità dell’Italia è il fianco sud della Nato e in particolare l’area del Mediterraneo. Quando parliamo di rivedere la nostra partecipazione alle missioni internazionali lo facciamo perché sentiamo l’urgenza di concentrarsi su questa nostra priorità. Giusto per questo rivedere la nostra partecipazione – ovviamente in rapporto con gli alleati – in Afghanistan. In quel Paese tra l’altro occorre un di più di politica e di diplomazia e scelte per la ricostruzione che hanno fino ad oggi tardato a farsi vedere. Sull’Iraq, l’ho già detto in precedenza, come ha dichiarato anche la stessa ministro Trenta, si pone il problema del rientro di parte del nostro contingente ora che i lavori per la messa in sicurezza della diga di Mousul sono terminati. L’Iraq va aiutato in altro modo e la società civile – che è attivissima – va sostenuta nei suoi progetti contro la corruzione e per la ricostruzione delle infrastrutture a cominciare da quelle scolastiche.

E per quanto riguarda le missioni in Libano e Niger?

Il nostro contingente in Libano rimane strategico ed è un esempio di come si devono fare gli interventi internazionali. Faccia notare che l’Unifil è l’unica missione militare che dal suo esordio ha sempre abbassato la tensione e mai fatta crescere. Il Niger rimane invece un mistero. Gentiloni e Pinotti ci avevano convocato d’urgenza a Camere sciolte sostenendo che il governo nigerino aveva richiesto il nostro aiuto. Non sembra, almeno fino ad oggi, che sia andata così.

E se in Afghanistan gli alleati ci chiedessero con forza di restare e di non ridurre il contingente?

Sull’Afghanistan abbiamo già risposto. L’Italia ha fatto moltissimo fin dall’inizio. Ora occorre che anche altri Paesi alleati facciano la loro parte.

Nelle proprie linee programmatiche, il ministro ha annunciato il lancio di una “Strategia di sicurezza collettiva integrata”. Cosa ne pensa?

Una concezione di difesa moderna non può che essere integrata. Anche sul nodo delle spese militari abbiamo sostenuto l’idea di considerare come spese per la difesa anche quelle per la cyber-security. Io aggiungerei anche quelle per la protezione civile. Abbiamo sotto gli occhi il dramma dei roghi che hanno messo in ginocchio la Grecia. Un nostro alleato e amico è stato lasciato in balia delle fiamme per giorni e la solidarietà europea è stata inadeguata e partita a danni fatti. Nella mia concezione di sicurezza c’è anche quella di non lasciare la popolazione civile disarmata davanti a tali eventi.

Quali sono i primi due punti in agenda della commissione Difesa della Camera?

Ci sono molti punti che stiamo cominciando ad affrontare. Tra i più delicati è il Fondo Europeo per la Difesa e il Piano d’Azione sulla Mobilità Militare. Tra le priorità metterei quelle di una legge in grado di attuare la sentenza della Corte Costituzionale che dichiara inammissibile la proibizione per i militari di organizzarsi in sindacati. La modernizzazione delle Forze armate passa anche dal riconoscimento dei diritti dei cittadini in uniforme.

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