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Deraa è caduta, e Assad (grazie a Mosca) intasca una nuova vittoria

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Con la capitolazione dei ribelli dell’Esercito Siriano Libero, che hanno accettato ieri di deporre le armi e di riconsegnare al governo di Damasco la provincia sud-occidentale di Deraa, il presidente siriano Bashar al-Assad si assicura un’altra vittoria e fa un ulteriore passo avanti verso la risoluzione definitiva, a suo vantaggio, della guerra civile.

L’offensiva lanciata il 19 giugno dal cosiddetto “asse della resistenza”, che oltre al regime siriano comprende la Russia, Hezbollah e le milizie sciite al comando dei Guardiani della Rivoluzione iraniana, si è conclusa con un esito più che prevedibile. La soverchiante forza degli attaccanti, gli incessanti bombardamenti dei jet di Mosca e Damasco, e la fuga di oltre trecentomila residenti terrorizzati, hanno indotto le raccogliticce unità ribelli, abbandonate da tempo dai loro sponsor internazionali, ad accettare la resa e le umilianti condizioni imposte dai mediatori russi.

Secondo gli accordi, favoriti anche dalla mediazione di una Giordania messa sotto pressione dai massicci flussi di rifugiati accalcati ai suoi confini, i ribelli dovranno ora consegnare le armi in loro possesso e acconsentire al ritorno delle città e dei villaggi di Deraa sotto il controllo del governo centrale. Per chi non si piegasse, l’alternativa è il trasferimento in autobus nella provincia settentrionale di Idlib, l’ultima ridotta delle opposizioni dove spadroneggiano le truppe turche, ufficialmente garanti del cessate il fuoco ma in realtà avanguardia di una vera e propria colonizzazione neo-ottomana.

Gli accordi, che secondo fonti dei ribelli saranno implementati in modo graduale, prevedono che a pattugliare i territori “liberati” sarà la polizia militare russa russa: un escamotage che, allontanando le forze di Damasco da aree in cui è mal visto, dovrebbe in teoria addolcire la pillola. Le forze di Mosca si faranno inoltre garanti del ritorno in sicurezza dei rifugiati, parte dei quali teme, correttamente, di essere perseguitata dal regime.

Mentre le agenzie di stampa battevano la notizia della resa dei ribelli, un reporter dell’Associated Press osservava l’arrivo delle truppe siriane e dei tank di Damasco e Mosca al valico di Nassib con la Giordania, il più prezioso obiettivo di questa battaglia. Dopo più di tre anni, il governo siriano si riappropria di una preziosa arteria commerciale che gli permetterà di riaprire gli scambi commerciali con i paesi arabi al di là della frontiera e di incassare introiti con cui finanziare l’onerosissima ricostruzione del paese.

Rimane drammatica, intanto, la condizione delle decine di migliaia di persone fuggite dai bombardamenti e riparate nei pressi dei confini con il regno hashemita e con le Alture del Golan controllate da Israele. Tanto Amman quanto Gerusalemme si sono rifiutate di accoglierle, resistendo alle pressioni delle Nazioni Unite e delle agenzie umanitarie che hanno ripetutamente chiesto loro di compere un gesto di solidarietà.

La situazione più grave si registra alla frontiera con la Giordania, dove sessantamila persone sono accampate in ripari di fortuna senza acqua né assistenza medica. Secondo un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari divulgato questa settimana, quindici persone – di cui dodici bambini – sono morte a causa di “morsi di scorpione, disidratazione e malattie trasmesse attraverso acqua contaminata”. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, ha più volte esortato i governi di Israele e Giordania a fare la loro parte, ricevendo però un netto diniego.

Su Twitter, il ministro degli esteri giordano Ayman Safadi ha scritto ieri che la priorità del regno è rendere possibile il ritorno di questa massa di disperati nelle proprie città e villaggi. “Assicurare il ritorno dei nostri fratelli siriani alle loro case e assicurare la loro sicurezza nel loro paese”, recita il tweet del ministro, è stato al centro “delle nostre discussioni con tutte le parti in causa. Abbiamo discusso di garanzie pratiche per rendere possibile il loro ritorno”.

Se la situazione al confine con la Giordania è rovente, lo è ancor di più alla frontiera con le Alture del Golan. Ieri l’aviazione israeliana ha bombardato una postazione dell’esercito siriano in una collina presso il villaggio di Khan Arnabeh, da cui era partito un colpo di artiglieria finito sulle Alture. Un chiaro avvertimento,quello di Israele, volto a dissuadere gli attaccanti dall’avvicinarsi troppo alla “buffer zone” con la Siria istituita nel 1974.

Secondo lo scenario paventato dai più, quella di ieri potrebbe essere la prima salva di un conflitto su larga scala che opporrebbe lo Stato ebraico a quelli che Gerusalemme considera i propri nemici irriducibili: l’Iran ed Hezbollah. Come il governo guidato da Benjamin Netanyahu ha più volte segnalato, la presenza delle loro milizie tra le forze che si accingono a riconquistare i territori al confine con Israele, nella provincia frontaliera di Quneitra, potrebbe rappresentare un casus belli e l’incipit di una nuova guerra.

Sarà senz’altro questo il tema in cima ai colloqui tra il primo ministro israeliano e il presidente russo Vladimir Putin previsti per la prossima settimana. Idem per il vertice di Helsinki tra Donald Trump e il capo del Cremlino che si terrà il 16 luglio. In entrambe le circostanze, Putin sarà chiamato dai suoi interlocutori a indurre i suoi alleati sciiti a tenersi ben alla larga da Israele. In cambio, con tutta probabilità, lo Zar riceverà luce verde al ritorno della sovranità del regime siriano su territori che per lunghi anni hanno rappresentato la culla delle opposizioni.

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