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Il decreto dignità, Di Maio e gli arcani che regolano la contabilità di Stato

Difficilmente “l’ira funesta” di Luigi Di Maio potrà avere le conseguenze sperate. Il motivo è semplice: le sue accuse contro lobbies misteriose, che vorrebbero affossare il Movimento 5 stelle, sono senza fondamento. Non esiste alcun complotto contro la sua persona e nessuna manipolazione postuma del testo del “decreto dignità”. Prima di lanciarsi contro i mulini a vento, avrebbe fatto bene a consultare gli esperti del suo stesso dicastero. Lo avrebbero illuminato sulle procedure che da oltre quarant’anni regolano la stesura dei singoli provvedimenti nel complicato passaggio che, dal proponente il provvedimento arriva fino alla sua definitiva approvazione, da parte del Parlamento italiano.

Il primo passaggio è interamente codificato nell’articolo 11 ter della legge 468 del 1978, non modificato dalla successiva 362 del 1988, che ne ha consolidato le prassi relative. Al comma 2 è stabilito che: “I disegni di legge e gli emendamenti di iniziativa governativa che comportino nuovi o maggiori spese ovvero diminuzioni di entrate devono essere correlati da una relazione tecnica, predisposta dalle amministrazioni competenti e verificata dal Ministero del tesoro, sulla quantificazione degli oneri recati da ciascuna disposizioni e delle relative coperture”. Un criterio che è stato seguito costantemente. È quindi il Ministro proponente che, attraverso i suoi uffici, elabora la relazione. La Ragioneria generale si limita a controllarne l’intima coerenza. Lo deve fare perché ne risponde al Parlamento. Che, a sua volta, ne controlla i singoli aspetti tecnici, attraverso l’Ufficio del bilancio, che è di supporto all’omologa Commissione parlamentare, tenuta ad esprime il prescritto parere ai fini dell’ulteriore corso dell’iter legislativo.

In passato non è mai capitato che la Ragioneria generale si sostituisse al Ministero titolare del provvedimento. Di solito è capitato il contrario. Quando, per carenza di dati, si è cercato di scaricare la palla sui tecnici del Tesoro. Ottenendo solo un cortese rifiuto ed il blocco del provvedimento fin quando la Relazione tecnica non veniva approntata dai legittimi titolari. La logica della procedura è evidente. È il ministero proponente il dominus della materia. Deve assumersi pertanto la responsabilità delle eventuali previsioni di spesa. La Ragioneria centrale si limita a controllare che i conti non siano cervellotici. Estendendo il suo giudizio fino all’eventuale fondatezza delle ipotesi di base. Ma tutto avviene in un continuo contraddittorio, preceduto da riunioni tecniche tra i diversi Uffici legislativi. Fino al possibile intervento dei ministri, qualora il contrasto si dimostrasse irriducibile.

La decisione di quantificare il possibile calo dell’occupazione – pomo della discordia del “decreto dignità” – non è stata una decisione volta a screditare il titolare del ministero proponente, ma un semplice atto dovuto. Se l’occupazione diminuisce, invece di aumentare, a seguito del decreto, le entrate dello Stato seguono lo stesso andamento. Cala infatti l’Irpef, calano i contributi sociali, interferisce la Naspi – l’indennità di disoccupazione – che nei primi due anni comporta una spesa aggiuntiva, in quelli successivi un risparmio non essendo più dovuta. Alla fine dei 10 anni, secondo la tabella pubblicata in diversi tweet, da parte degli esponenti dell’opposizione, il costo sarà pari a 153,6 milioni. Onere che dovrà essere coperto.

Al momento la relazione tecnica non è ancora disponibile. Esistono solo degli stralci che hanno formato oggetto di valutazioni politiche che non sembrano, tuttavia, rispondere a criteri di ragionevolezza. In attesa di conoscere il testo completo, si possono, quindi, avanzare alcuni rilievi. Contrariamente a quanto sostiene Maurizio Martina, ad esempio, il calo dell’occupazione non sarà pari a “Ottantamila posti di lavoro in 10 anni”. Ottenuti sommando erratamente gli esuberi, anno dopo anno. Il calo previsto è solo di 8 mila unità, che tuttavia comporta oneri che si rinnovano, seppure per importi diversi, negli anni successivi. Ed il cui costo totale è quello che abbiamo indicato.

L’errore nasce dall’aver sommato mele e pere, quando invece il livello di disoccupazione previsto è uno solo: nel primo anno pari a 3.300 unità, che diventano 8.000 negli anni successivi. E tali rimangono. Aver sommato, erroneamente, le cifre porta invece a prefigurare quel disastro su cui si è costruita la polemica politica. Dal che, un piccolo insegnamento. Prima di sparare alla luna, sarebbe bene che i singoli protagonisti si informassero meglio. Ovviamente non è indispensabile che i singoli politici conoscano gli arcani che regolano la contabilità di Stato. Hanno, tuttavia, a disposizione consulenti in grado di informarli. Se questo è lo stato dell’arte, non è necessario minacciare decimazioni di pubblici funzionari. Basta solo scegliersi con cura i propri e rispettivi collaboratori e chiedere loro i lumi necessari, prima di aprire bocca.

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