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Un gioco cooperativo per evitare il protezionismo degli Stati Uniti

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La recente intervista di Donald Trump a Class Cnbc offre un’immagine del Presidente diversa dal suo stereotipo istrionico. È un interlocutore che parla soprattutto con la forza dei numeri e su questi fonda buona parte della sua strategia. Naturalmente si potrà eccepire che quest’approccio appartiene più al mondo del business che non a quello della politica, ma l’obiezione non è convincente.

Aver trascurato questi aspetti del problema, in tutti questi anni, ha trasformato la globalizzazione in un autentico far west. Dove vigeva la legge del più forte ed i più furbi vivevano sulle spalle della restante parte della popolazione. Finché il risveglio, con l’insorgente populismo, non ha fatto comprendere che quel mondo, fatto di condotte spregiudicate rese possibili dall’assenza di qualsiasi controllo, come nel caso della vecchia URSS, aveva esaurito gran parte della sua forza produttiva.

Le tesi di Trump sono soprattutto concretezza. Finora – questo il filo rosso del suo ragionamento – in America è prevalso il cosmopolitismo. Ha difeso l’Occidente, pagandone i relativi costi. Sostenuto l’economia mondiale come unica “locomotiva”. Subito la concorrenza sleale dei vari paradisi fiscali che favorivano la delocalizzazione dei grandi colossi a stelle e strisce. È riuscita a mantenere una posizione di preminenza nei settori innovativi dell’Ict, ma già la Cina, nel trattamento dei big-data, si profila come un pericoloso concorrente. Ed è su questo terreno che si giocherà, in prospettiva, il futuro dell’intelligenza artificiale.

Naturalmente le big companies hanno trovato il loro tornaconto, ma i costi relativi li ha pagati la middle class, una volta spina dorsale della democrazia americana, in termini di disoccupazione e crescente emarginazione di intere zone del Paese. Mentre dilagavano le diseguaglianze sociali. In passato lo schema della politica americana era quello di una bilancia commerciale in surplus – segno della forza della relativa manifattura – in grado di finanziare le successive esportazioni di capitali: necessarie per “colonizzare” gran parte dell’Occidente. Basti pensare a Jean-Jacques Servan-Schreiber, ed al suo libro “La sfida americana”. Secondo il quale la principale struttura produttiva europea era data dalle filiali delle grandi multinazionali di quel Paese.

Da troppo tempo quello schema è saltato. Ed oggi il deficit commerciale con la Cina è pari a 507 miliardi di dollari, quello dell’Unione europea a 151 e del Messico a 120. “Io riporterò il campo di gioco perfettamente livellato”: questo il proposito enunciato. Naturalmente Trump non accenna al signoraggio del dollaro, come principale moneta di riserva degli scambi internazionali. Né al fatto che quelle maggiori importazioni hanno contribuito a ridurre il costo del lavoro, in termini reali, contribuendo, in tal modo alla maggiore crescita americana. Ma nel conto del dare e dell’avere il bilancio, a suo parere, è divenuto negativo. Non solo dal punto di vista economico e finanziario, ma soprattutto in termini politici.

C’è poi un ulteriore elemento di preoccupazione. L’economia americana, grazie alla dinamica della sua domanda interna, sta tirando più del dovuto. La Fed è quindi costretta ad alzare i tassi di interesse, per prevenire focolai d’inflazione. Ma la conseguenza di queste decisioni è il rafforzamento del dollaro nei confronti delle altre valute, determinato dal flusso di capitali che, dalle altre piazze finanziarie, si trasferiscono negli States alla ricerca di maggiori rendimenti. Per questo l’euro si sta svalutando, mentre il renminbi “scende giù come un masso”. Per cui il riequilibrio commerciale diventa sempre più difficile da realizzare. Il cane che si morde la coda.

La spinta verso il protezionismo ha quindi questa radice di carattere strutturale. Potrebbe essere evitata da un gioco cooperativo. Se ad esempio sia la Cina che l’Europa reflazionassero le loro economie. Sarebbe un bene per tutti, non solo per gli Stati Uniti. Si pensi solo alla realtà italiana: costretta a politiche sostanzialmente deflazionistiche, a causa del Fiscal compact, nonostante il forte attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. L’ostacolo, almeno per quanto riguarda l’Europa, è soprattutto la Germania, con la sua vocazione mercantilista e l’enorme attivo della sua bilancia dei pagamenti. Rispetto alla quale a Trump ha parole dure, ma anche di verità. Sulle forniture di gas, provenienti da quel Paese, “ho detto loro: “Aspettate un attimo, noi dovremmo proteggervi dalla Russia e voi li state pagando profumatamente. Com’è questa storia?” É ridicolo, ma è la realtà.” Da questa impostazione si può, naturalmente, dissentire. Etichettandola come “populista”. Ma se si conserva un barlume di oggettività, se ne può forse negare un qualche fondamento?

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