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Fake news (ossia bufale) e commercio internazionale

Non si vuole infierire sul povero vice presidente del Consiglio e ministro del Lavoro, della Protezione Sociale e dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio, il quale a proposito delle sue affermazioni sul CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement dell’Unione europea ,Ue con il Canada) è stato smentito, e ridicolizzato, da tutti gli osservatori italiani e stranieri, ma ricordare alcune “fake news” (bufale) del presidente degli Stati Uniti Donald Trump – che forse Di Maio tenta di imitare – a proposito di politica commerciale.

Cominciamo proprio con il Canada e con il lattiero-caseario, Paese e comparto che sembrano interessare ambedue sia Trump sia Di Maio. La Casa Bianca non ha ancora annunciato contro il Canada “super dazi” come quelli attuati nei confronti della Cina e della Ue, ma un tweet del Presidente Usa della fine della settimana scorsa induce e pensare che il suo alleato e suo vicino più stretto potrebbe essere presto protagonista dell’attenzione della sua politica commerciale. Il tweet accusa Ottawa di imporre dazi del 270% nei confronti dell’import di prodotti del lattiero-caseario dagli Stati Uniti. La verità è che il Canada importa dagli Usa una quantità di prodotti del lattiero-caseario americano senza dazi (contingente) e che per il resto ha un’ampia quantità di dazi che per talune merci arrivano anche al 300%. Prima del CETA una situazione analoga si applicava a molti prodotti del comparto importati dall’Europa (con contingenti spesso stabiliti in accordi definiti o con i singoli Paesi europei o con l’Ue). Ma cosa fanno gli Usa? Hanno un sistema di contingenti e dazi ancora più restrittivo di quello del Canada sempre grazie a una  combinazione di contingenti e dazi. Uno studio della Brooking Institution documenta che nel 2017 solo il Wisconsin ha esportato alla volta del Canada prodotti lattiero-caseari per 792 milioni di dollari mentre tutti i cinquanta Stati dell’Unione ne hanno importati (dal Canada) per solamente 149 milioni di dollari.

Un altro comparto (che dovrebbe preoccupare Di Maio nelle sua veste istituzionale) è la metalmeccanica . A difesa dei dazi sulle auto europee (quindi anche italiane), la Casa Bianca sostiene che gli Usa hanno una tariffa doganale sulle automobili appena del 2,5% mentre l’export di Cadillac e di Lincoln americane in Europa è frenato da una tariffa europea del 10%. È una bufala perché si tratta di una notizia incompleta. Gli Stati Uniti hanno deciso di proteggere un segmento specifico del settore (camion, camioncini, grosse cilindrate) con dazi così alti che in effetti non si vedono prodotti europei (o giapponesi o coreani) di questo tipo sulle autostrade americane e di rendere la “protezione effettiva” di questa gamma ancora più forte permettendo l’import negli Usa di utilitarie europee (anche per soddisfare una fetta di mercato a reddito medio o medio-basso).

In America i superdazi nei confronti delle case automobilistiche si stanno trasformando in vero boomerang. Infatti, le maggiori case e tedesche hanno impianti giganteschi in Alabama, Tennessee e Carolina del Sud, dove sono diventate le principali fonti di produzione, di reddito (e, quindi, di gettito fiscale) nonché di occupazione. La Volvo (ora di proprietà cinese ma considerata, a tutti gli effetti, negli Stati Uniti, come una casa svedese, e quindi europea) ha inaugurato un impianto analogo in Carolina del Sud. Queste fabbriche fanno quasi esclusivamente assemblaggio di componenti importate soprattutto dall’Europa (principalmente dalla Germania e dalla Svezia), nonché marketing e distribuzione sul mercato americano. Su tali componenti graverebbero i nuovi dazi, aumentando in misura considerevole i costi di produzione e minando la competitività. La Camera di Commercio di Spartanburg nella Carolina del Sud dove la Bmw ha il più grande impianto di assemblaggio e distribuzione al mondo: solo nella Contea (equivalente di una nostra provincia) sono in gioco circa cinquantamila posti di lavoro. Qui entra in ballo un dato politico: l’Alabama, la Carolina del Sud ed il Tennessee sono stati determinanti per la vittoria elettorale di Trump, ed ora rischiano di voltargli le spalle il prossimo 6 novembre, alle elezioni di medio termine.

Il boomerang non riguarda solo il Sud. Nella “rustbelt” del Nord (Illinois, Michigan) si sono già espressi contro i dazi di Trump sulle auto la General Motors e la Ford, per le quali l’import di componenti europee è vitale. Lo ha sottolineato la settimana scorsa un’inchiesta dettagliata (e non smentita) del New York Times.

Le “bufale” di Trump (e dei suoi imitatori nostrani) dovrebbero preoccupare chi ha responsabilità per lo sviluppo economico italiano perché riguardano la bilancia commerciale (e, quindi, l’export e l’import) di prodotti fisici (formaggio, auto, alluminio, siderurgia) non l’intercambio di servizi (finanza, banche, assicurazioni, software, rette universitarie differenziate per gli studenti stranieri rispetto a quelli americani, e via discorrendo). Nonostante il “Tokyo Round” di negoziati commerciali degli anni ottanta del secolo scorso – che riguardava particolarmente il commercio internazionale di servizi -, in questi campi il mercato americano resta molto protetto.

Il ministro italiano dello Sviluppo Economico farebbe cosa utile se intervenisse in sede europea azioni per sollecitare gli Usa ad aprire questo mercato.

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