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Le mosse (pericolose) di Hezbollah fra Siria e Libano. Sulla pelle dei profughi

Ultima tappa del percorso miliziano di Hezbollah, il partito khomeinista che in Libano oltre alla più forte milizia araba conta ministri, deputati, giornali e controlla apparati di sicurezza dello Stato. Dopo essere intervenuto nella guerra siriana al fianco del regime di Bashar al Assad, determinando numerose vittorie militari che hanno portato alla fuga di oltre 5 milioni di siriani, ora prepara con propri mezzi e proprie strutture il rientro dal Libano dei profughi siriani in patria.

La questione dei profughi era stata posta con veemenza dal ministro degli esteri libanese, il cognato del presidente Aoun, Gebran Bassil. Cristiano alleato di Hezbollah, Bassil aveva minacciato di non rinnovare i permessi di lavoro al personale dell’Onu, in particolare dell’UNHCR, denunciando che la comunità internazionale di fatto ostacolava il rientro dei profughi siriani in patria. La risposta dal palazzo di vetro è stata fermissima: noi siamo a favore del rientro dei profughi, purché sia volontario e venga assicurata la sicurezza del rimpatrio, opzione che con il permanere al potere di Assad per chi è fuggito dalla sua persecuzione appare improbabile. Dalla parte delle ragioni dell’Onu si sono schierati tanto Hariri che Joumblatt che il cristiano Geagea, pur consapevoli che nel paese la presenza di un milione e mezzo di profughi su 4 milioni di abitanti è problematica e crea malesseri nell’opinione pubblica.

Così l’annuncio a sorpresa di Hezbollah di aver cominciato in proprio a stilare liste e calendari di rientro di profughi, senza alcuna forma di coinvolgimento né della Croce Rossa né dell’UNHCR né dello stesso Stato libanese – se non la sicurezza generale che è controllato da un esponente di Hezbollah, Abbas Ibrahim – sembra avere un obiettivo di politica interna: visto che in Libano si sta discutendo da maggio della costituzione del nuovo governo di unità nazionale, Hezbollah e il ministro degli esteri intendono porre al centro dell’agenda politica del nascituro governo la questione dei profughi. Ovviamente il comunicato del partito di Dio dice che riaccompagnerebbe in Siria solo su base volontaria, e infatti su un milione e mezzo di profughi solo mille avrebbero accettato, stando a questo reso noto dal numero due di Hezbollah. Ma la forzatura, rimpatriare dei profughi con mezzi e criteri di partito, mira anche ad altro: una volta obbligato il governo a prendersi in carico l’operazione per renderla compatibile con criteri di diritto internazionale il Libano dovrebbe normalizzare i propri rapporti con il regime di Assad. È questo di certo il grande obiettivo, già dichiarato per altro da Hezbollah e dallo stesso ministro degli esteri Bassil: presto con Damasco, hanno detto entrambi, torneremo ad avere buone relazioni politiche, commerciali e culturali.

In ballo dunque c’è una questione di grande importanza, che merita di essere capita fino in fondo. Ma quello che alcuni, in particolare nel campo cristiano non solidale con Hezbollah, temono e sottolineano, è ancor più rilevante: se Hezbollah vincerà la prova di forza e riuscirà a far normalizzare le relazioni con Assad e a imporre il rimpatrio di parte dei profughi, dove verranno portati? È noto che la maggioranza dei siriani fuggiti in Libano vengono dalle città sunnite devastate da Assad e Hezbollah, improbabile che possano tornare a casa loro. Ecco perché queste fonti temono che il rientro possibile possa essere nell’enclave siriana che oggi non è governata da Assad ma che presto potrebbe essere al centro di una nuova operazione militare, sanguinosa come quelle della Ghouta e di Daraa. Se così fosse sarebbe una nuova tragedia umanitaria. La comunità internazionale e l’Unhcr sin qui, per fortuna, non lo hanno consentito. Ma il problema è tornato sull’agenda.

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