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Il manager che insieme al sindacato e operai ha salvato la Fiat. Visto da vicino

Di Raffaele Apetino

Ho vissuto la vertenza di Pomigliano in prima persona nel 2010 da delegato di fabbrica. Sono rammaricato della scomparsa di Sergio Marchionne, sia dal punto di vista umano che dal punto di vista sindacale.

Un manager che ha saputo far rinascere dal punto di vista finanziario e industriale un’azienda come Fiat all’epoca decotta e indebitata che nel 2004 stava per portare i libri in tribunale.

I rapporti con Marchionne non sono stati mai semplici. I momenti d’interlocuzione, specie agli inizi del suo percorso in Fiat, soprattutto quando era in discussione la decisione di continuare ad investire Italia, sono stati tormentati. Dopo la chiusura del sito di Termini Imerese le cose si stavano complicando. Era la fine della primavera di otto anni fa, il 2010, una giornata di fine maggio, ci incontrammo a Roma, la sede era quella delle grandi occasioni: Palazzo Chigi. Una riunione tesissima, senza giornalisti e stampa. Durante l’incontro, dopo l’ennesima indisponibilità della Fiom a rivedere e riscrivere le regole delle relazioni sindacali necessarie alla nuova organizzazione del lavoro in fabbrica, durante una sospensiva della trattativa, arrivò una telefonata di Marchionne all’allora responsabile delle relazioni industriali Paolo Rebaudengo: “Il tempo è scaduto, ritiriamo la disponibilità ad investire su Pomigliano” disse Marchionne a Rebaudengo che lo stava aggiornando sulla trattativa.

A Pomigliano erano in ballo 5000 posti di lavoro un investimento di 800 milioni di euro per la produzione della “nuova Panda” già assegnata in precedenza al sito polacco Tichy in Polonia e che Marchionne voleva riportare in Italia. Solo la nostra capacità negoziale e l’assunzione di responsabilità nel fare un accordo sindacale separato salvò lavoro e investimento.

Oggi possiamo dire che la nostra scelta fu quella giusta. Furono giorni difficili, mediazioni complesse ma alla fine Marchionne si convinse delle nostre ragioni, accettò l’intesa a patto che la scelta fosse condivisa anche dai lavoratori. Ci fu un referendum qualche settimana dopo, il 22 giugno 2010, il risultato fu che il 63% dei lavoratori approvò l’accordo e condivise con noi la sfida.

Pomigliano era un sito in cassa integrazione per cessazione attività, la sua ripartenza ha rappresentato l’inizio di un cambiamento e la rinascita di Fiat in Italia. Una sfida, che anche Marchionne sapeva bene, doveva passare anche attraverso un cambiamento nella cultura, non solo del sindacato, ma del management che non era senza colpe della situazione in cui versava la Fiat.

All’epoca pochi capirono le scelte che come Fim Cisl abbiamo fatto: media e politica cavalcarono quella vicenda dando voce e appoggiando solo la parte del sindacato che contrastò quegli accordi, tra l’altro senza averli mai letti. I 18 turni, le procedure di raffreddamento, l’esigibilità degli accordi erano cose che la Fiom aveva firmato e sottoscritto insieme a noi in decine di accordi in tutt’Italia ( non ultimo in Lamborghini) ma che a Pomigliano divennero principi inderogabili, diritti negati.

Insulti, automobili incendiate, dirigenti sindacali sotto scorta e sedi sindacali assaltate nel silenzio totale di stampa e tivvù. Un prezzo alto, altissimo che abbiamo pagato per rilanciare il lavoro e l’occupazione in un settore come quello dell’automotive che nel nostro Paese era ormai in ginocchio.

Da qui bisogna partire se vogliamo capire la vicenda Fiat e di Sergio Marchionne. Una Fiat che in questi 14 anni ha cambiato pelle. Grazie all’acquisizione di Chrysler è diventata FCA Group , il settimo players globale dell’industria dell’auto, un colosso da 239 mila dipendenti in tutto il mondo, 89 mila solo in Italia.

Un risultato possibile grazie alle capacità manageriali di Marchionne, ma anche del sindacato dei lavoratori che hanno condiviso una visione e una sfida. Un percorso che oggi deve trovare continuità dentro un progetto di partecipazione .

Al manager abruzzese bisogna dare atto di essere stato un leader indiscusso nel campo finanziario e industriale, sfidando come ha ben detto il nostro Segretario generale Marco Bentivogli “l’italietta delle rendite e dei ricatti”. Le relazioni sindacali sicuramente non erano il suo forte, anche se non ha potuto fare a meno, nonostante il suo carattere, di riconoscere al sindacato e soprattutto alla Fim Cisl, di aver sempre discusso di merito e di essersi assunta le sue responsabilità sottoscrivendo accordi complessi, difficili e impegnativi.

Oggi per la prima volta nella sua storia, Fca ha un amministratore delegato non italiano. Di certo non giudicheremo il nuovo Ceo Mike Manley alla guida del Gruppo dal passaporto d’origine, ne siamo legati ad un patriottismo industriale superato dalla storia, lo valuteremo rispetto ai risultati che saprà raggiungere . Marchionne ha lasciato un Gruppo in buona salute, capace oggi di competere sullo scenario globale. Ha azzerato tutti i debiti, fatto investimenti, allargato la rete commerciale e riorganizzato le modalità del lavoro con il WCM.

Oggi Fca è una realtà industriale con 96 mld euro di patrimonio e un Piano di investimenti da qui al 2022 di 45 mld di euro – che vedono l’Italia protagonista con 9 nuovi modelli da realizzare negli stabilimenti del nostro Paese. La cassa integrazione nei siti italiani è passata dal 27% del 2012 al 4% del 2017, l’occupazione da 83.320 dipendenti del 2004 a 86.899 del 2017 e un unico sito chiuso, quello di Termini Imerese in Sicilia, compensato dall’acquisizione del sito di Grugliasco Ex Bertone ( dove oggi si producono Maserati, Ghibli e Quattroporte).

Abbiamo quindi tutte le carte in regola per poter giocare la partita globale in un settore che nei prossimi anni subirà una trasformazione senza precedenti con l’elettrico e la guida autonoma.

È necessaria quella capacità di visione che aveva Marchionne, realizzare una nuova alleanza industriale che dia la possibilità a Fca di scalare la classifica dei produttori di auto nel mondo, avendo cura di anticipare e gestire nel miglior modo possibile i cambiamenti raggiungendo in tempi rapidi la piena occupazione in tutti i siti italiani. Questa è la sfida che ha di fronte il nuovo Ceo Mike Manley a cui auguriamo buon lavoro.

“Ripartiamo da quello che meglio sappiamo fare, le cose che costruiamo ci rendono ciò che siamo” come diceva lo spot della nuova Panda nel 2012, l’Italia nel mondo è conosciuta per il Made in Italy che è sinonimo di qualità e di eccellenza, continuiamo a giocare la partita da protagonisti.

Grazie per tutto Sergio.

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