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Il rischio di un nuovo Ruanda. Cosa succede nel sud della Nigeria

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L’inquieto, tormentato, gigante d’Africa – quasi 200 milioni di abitanti, Paese immenso, dalle stridenti contraddizioni – è sconvolto da un nuovo dramma (anzi vecchio, riemerso pari pari dalla storia), rimasto avvolto da una cortina di silenzio e di indifferenza fino a poche settimane fa. Un conflitto etnico-religioso (ma anche di carattere economico, una sorta di endemica “guerra dell’acqua”, di sfida disperata per l’ accesso alle vitali risorse idriche e insieme per lo sfruttamento di quella fertile terra) è in atto da almeno tre anni nel sud della Nigeria.

Protagonisti dello scontro i pastori nomadi “Fulani” – musulmani, quasi tutti sunniti – e i contadini “Berom”, cristiani di diverse confessioni e stanziali, che starebbero soccombendo agli assalti e alle stragi, l’ ultima – particolarmente efferata – compiuta appena quindici giorni fa, costata la vita a un centinaio di persone, donne e bambini compresi: un intero villaggio raso al suolo nello stato di Plateau.

I vescovi denunciano all’Occidente con parole forti e accorate – riprese dall’Osservatore Romano – il “genocidio dei cristiani”, evocano il rischio di un nuovo Ruanda e lanciano un monito: “Non si aspetti. Non si ritardi. Non venga ripetuto il tragico e colpevole errore dell’immobilismo. Non si spiani la strada all’irreparabile”. Spaventose le cifre che scandiscono la gravità della situazione. Sedicimila morti, già alcune migliaia quest’anno. Spesso – negli omicidi, gli stupri, i rapimenti, gli incendi alle chiese e le devastazioni – c’è l’impronta inconfondibile dei terroristi jihadisti di “Boko Aram”, onnipresenti nel seminare il panico con l’obiettivo di sfasciare (o almeno minare) l’assetto di uno Stato-chiave, comunque finora caratterizzato – tra limiti e condizionamenti pesanti – da istituzioni democratiche e da prevalenti alleanze occidentali.

Nel mirino della Conferenza Episcopale nigeriana c’è il reticente e ambiguo governo del musulmano (guardacaso, un ‘Fulani’) Muhammadu Buhari, 75 anni – salito al potere proprio nel 2015 dopo aver sconfitto a sorpresa il presidente uscente di fede cristiana – un arcigno generale in pensione dell’esercito ed ex-golpista, che si è distinto per avere scatenato una dura repressione ai danni dell’opposizione, fallendo miseramente (nel contempo) l’annunciata azione di contrasto ai fanatici tagliagole di Boko Haram.

Buhari non solo non sta muovendo un dito per fermare la carneficina nel sud, ma è sospettato – a ragion veduta – di guardare con simpatia alla “pulizia etnica” degli agricoltori cristiani da parte dei pastori della sua tribù e correligionari. Due prelati dell’area interessata ai massacri si spingono ancora più in là e accusano l’autoritario presidente di condividere il piano di islamizzazione della “Middle Belt” nigeriana, che è sotteso nella lunga scia di violenza portata avanti da tempo – e ripresa di recente con virulenza – dai nomadi ‘Fulani’, misteriosamente riforniti – tra l’altro – di moderne armi automatiche.

Da chi? Se non dal governo centrale di Abuja? La partita è sempre più aspra. Appena mercoledì scorso i vescovi hanno chiesto a Buhari di dimettersi, riconoscendo la sua incapacità e le sue colpe. Non solo non tiene in mano le redini della nazione – piombata, in molti dei suoi 36 Stati-regione, nel caos più buio – ma favorisce sfacciatamente i musulmani, addirittura intenzionato a introdurre la sharia, riducendo a un simulacro le istituzioni democratiche. L’Occidente dovrebbe capire che si sta giocando un match di vitale importanza. L’equilibrio tra Islam e Cristianesimo in Africa passa dalla Nigeria, che – nell’arco di trent’anni – diventerà uno dei dieci Paesi del mondo più cristianizzati. Non voltiamoci dall’altra parte. Come abbiamo fatto troppo spesso. Con risultati disastrosi.

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