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Ecco come Pompeo, discreto e diplomatico, gestisce con calma i ruggiti di Kim

Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, è uno che è passato rapidamente dalla riservatezza dello spionaggio – dirigeva la Cia – alla delicatezza della diplomazia, nonostante la nomea di falco repubblicano (Tea Party) trumpiano: alle accuse nordcoreane di aver gestito la sua ultima visita a Pyongyang con un “gangster-style”, ha reagito per il momento definendo solo come “infondate” le dichiarazioni della satrapia di Kim Jogn-un. “Increscioso”, così definisce il ministero degli Esteri nordcoreano il suo viaggio, il suo comportamento.

Volato nella capitale del Nord due giorni fa con l’incarico di costruire un accordo politico che potesse andare oltre le photo-opportunity e gli impegni vaghi ottenuti dal suo capo, il presidente Donald Trump, dall’incontro col dittatore asiatico a Singapore, Pompeo è tornato con quel che sembra poco o niente, ma che lui fa capire essere l’inizio di un percorso lungo e pieno di tatticismi.

Pompeo, senza badar troppo a chi come il presidente dichiarava vittoria (tweet roboanti del tipo “la Corea del Nord non è più una minaccia nucleare” appena poche ore dopo la stretta di mano con Kim), ha sempre tenuto la barra dritta. Atteggiamento che, visti i precedenti, nel caso di Pyongyang significa una sola cosa: non fidarsi. Il segretario ha più volte detto apertamente che senza un accordo – e senza le sue implementazioni (ossia il momento in cui le parole messe nero su bianco diventano fatti) – che porti a una denuclearizzazione “completa, verificabile, irreversibile” (Cvid, acronimo tecnico), Washington non avrebbe mosso una paglia su sanzioni e soprattutto sulla postura contro il Nord.

“Se queste richieste sono simili a quelle di un gangster, allora il mondo è un gangster”, ha aggiunto Pompeo al suo commento, parlando da Tokyo, dove si è incontrato con i suoi omologhi alleati di Corea del Sud e Giappone. Significato: non siamo noi a voler questo da Kim, è tutto il mondo a chiederlo – i nordcoreani invece dicono che la richiesta americana è “unilaterale”.

Poi ha sottolineato che, nonostante la posizione aggressiva presa da Pyongyang, lui è convinto che in fondo durante gli incontri avuti nella sua ultima visita le due parti hanno fatto progressi e che la sua controparte nordcoreana, Kim Yong Chol (che potremmo definire il numero due del regime) abbia negoziato in “buona fede”.

Un viaggio “produttivo”, ha detto ai giornalisti, a cui poi ha aggiunto un dettaglio significante: i nordcoreani in fine dei conti sono d’accordo con la Cvid, perché capiscono situazione ed esigenza. Possibile dunque che il regime debba far uscire certe dichiarazioni anche per mantenere presa interna.

Il potere di Kim e dei suoi predecessori si basa anche su anni di retorica aggressiva contro Stati Uniti e Occidente, quelli con cui i satrapi nordcoreani hanno potuto giustificare le enormi spese militari davanti ai cittadini ridotti in condizioni di sofferenza anche sulle necessità primarie.

Pompeo ha anche detto che gli Stati Uniti stanno lavorando per garantire le condizioni a contorno affinché i nordcoreani possano fidarsi di loro – è la confutazione di quella definizione “unilaterale”. Stanno pensando a come allentare progressivamente le sanzioni davanti ai fatti, e intanto hanno già sospeso le esercitazioni militari con la Corea del Sud, creando un presupposto di sicurezza per Kim.

(Foto: dipartimento di Stato, Mike Pompeo accolto da Kim Yong Chol all’arrivo a Pyongyang)

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