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Stati Uniti e Iran, guerra di parole o prove tecniche d’intesa?

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Il tweet a lettere maiuscole di domenica di Donald Trump, nel quale ha esortato il regime iraniano a “non minacciare mai, mai più ancora gli Stati uniti o soffrirete conseguenze come pochi di voi nella storia hanno mai sofferto prima”, è un esempio lampante della strategia di “massima pressione” elaborata dall’America per piegare Teheran.

Sin da quando era candidato alla Casa Bianca, Trump aveva promesso di cestinare l’accordo nucleare con l’Iran (Jcpoa), considerato l’eredità politica di quel predecessore, Barack Obama, che con il paese degli ayatollah aveva perseguito una distensione che aveva partorito ben pochi risultati ed allarmato gli alleati americani in Medio Oriente.

Da quando si è insediato, Trump ha non solo mantenuto l’impegno preso in campagna elettorale, relegando l’8 maggio scorso il Jcpoa nel cestino della storia, ma ha elevato i toni dello scontro con Teheran. Il tweet di domenica è solo l’ultimo di una serie di messaggi volti a mettere in guardia gli ayatollah.

La linea della Casa Bianca verso Teheran parrebbe essere ispirata, oltre che dagli impulsi del presidente, da due consiglieri con la fama di falco come Mike Pompeo e John Bolton. Non a caso, sempre domenica Pompeo aveva pronunciato in California un discorso alquanto minaccioso nei confronti dell’Iran, mentre Bolton ieri ha confermato la linea di Trump dichiarando di aver “parlato con il presidente negli ultimi giorni (e) mi ha detto che se l’Iran compie qualcosa di negativo, pagherà un prezzo che pochi paesi hanno mai pagato”.

In Iran, frattanto, le conseguenze del nuovo approccio americano si fanno sentire. Da quando Trump ha ritirato la firma dell’America dal Jcpoa, la valuta iraniana è in caduta libera rispetto al dollaro. E ieri, poche ore dopo il tweet incendiario di Trump, la sua quotazione è ulteriormente scesa nel mercato nero a 92 mila rial per dollaro. Le classi popolari e la gente del bazar avvertono questa pressione e la loro rabbia potrebbe presto esplodere, come sembrano sperare a Washington.

Ciononostante, il ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif ha trovato il tempo per fare uno sberleffo via twitter al presidente americano: “Il mondo ha udito sfuriate ancora più dure pochi mesi fa. E gli iraniani le hanno sentite – sebbene siano state più civili – per quarant’anni. Siamo qui da millenni e abbiamo visto la caduta di imperi, incluso il nostro, che sono durati più della vita intera di vari paesi. SIATE CAUTI!”:

Si dice tutt’altro che impressionato dalla grancassa di Trump anche il capo della forza paramilitare dei Basij, Gholamhossein Gharibpour. “Ciò che Trump sta dicendo contro l’Iran”, ha dichiarato Gharibpour all’agenzia di stampa semi-ufficiale Isna, “è mera guerra psicologica. Non oserà commettere l’errore di agire in qualsiasi modo contro l’Iran. (…) Noi non rinunceremo ai nostri valori e principi rivoluzionari e ci opporremo contro imperialisti e tiranni (…). Il nostro popolo e le nostre forze armate si opporranno ai nemici e non arretreranno”.

Si è rivolto invece a Pompeo, che domenica aveva paragonato il regime ad una “mafia”, il portavoce del ministro degli esteri di Teheran, Bahram Qassemi. Che ha definito le dichiarazioni del Segretario di Stato “un esempio dell’interferenza del paese (gli Stati Uniti) negli affari interni dell’Iran e esattamente in linea con le sue politiche destabilizzanti e distruttive di lungo termine nella regione”.

Al di là della sicumera, la leadership iraniana sembra aver capito che la musica a Washingon è cambiata. Che la détente sperimentata al tempo di Obama è stata sostituita da un approccio muscolare che punta ad isolare Teheran e rintuzzare colpo su colpo tutte le sue manovre sul quadrante mediorientale. Le dodici richieste che Pompeo ha formulato ad aprile all’indirizzo dell’Iran equivalgono di fatto ad una capitolazione, e sarebbero senz’altro il preludio ad una caduta del regime.

Ma siamo sicuri che l’amministrazione Trump stia perseguendo una politica di regime change in Iran? O forse le tonitruanti dichiarazioni del presidente e dei suoi più fidi consiglieri preludono ad altro, magari proprio al raggiungimento di un’intesa generale su cui nessuno, in questo momento, scommetterebbe un penny?

In queste ore sono molti, in America, a porsi questa domanda. Tra questi, ci sono i quotidiani Politico e The New York Times. Che in due lunghi articoli usciti oggi mettono a fuoco la strategia iraniana della Casa Bianca per cogliervi in controluce i segnali di una politica coerente.

Nonostante le parole di fuoco, o forse proprio a causa di quelle, la Casa Bianca potrebbe non essere tanto intenzionata a provocare la Repubblica Islamica, quanto a tentare un’apertura. Sia il Times che Politico ricordano opportunamente lo scambio di intemerate tra Trump e Kim Jong-un avvenuto l’anno scorso e il famoso “fuoco e furia” promesso via twitter da The Donald alla Corea del Nord qualora avesse proseguito il suo corso bellicoso in Estremo Oriente.

Ebbene, a pochi mesi di distanza da quel tweet, Corea del Nord e Stati Uniti hanno avviato un nuovo corso diplomatico in cui si sono promessi a vicenda di risolvere i problemi che li dividono, primo fra tutti la “completa denuclearizzazione della penisola coreana”. Di più, Trump e Kim si sono incontrati in pompa magna a Singapore, dove tra strette di mano, pacche sulle spalle e sorrisi hanno offerto ai media mondiali lo spettacolo del disgelo tra due potenze tecnicamente ancora in guerra.

Se nel caso della Corea del Nord la diplomazia dei tweet bellicosi ha fatto da preludio ad una fraternizzazione, perché – si domandano Politico e Nyt – la stessa cosa potrebbe non accadere con l’Iran? La domanda è stata rivolta espressamente ieri da alcuni giornalisti alla portavoce della Casa Bianca, Sarah Sanders. Che ha preferito ignorarla, lasciando così’ aperta la questione.

Certo, i problemi rappresentati dall’Iran e dalla Corea del Nord sono troppo dissimili per poter operare una comparazione. Con Pyongyang, gli Stati Uniti hanno tentato la via diplomatica in assenza di alternative. Nonostante il lungo isolamento internazionale e le sanzioni, Kim ha perseguito incessantemente il suo obiettivo di far diventare il suo paese una potenza nucleare, una missione che tutti gli analisti ritengono essersi compiuta. Minacciare la Corea del Nord, come in principio ha tentato di fare la Casa Bianca, comportava il rischio di innescare un conflitto atomico, o comunque di provocare un’ecatombe in Corea del Sud, esposta alle innumerevoli bocche da fuoco del Nord poste nei pressi del 38mo parallelo. In queste condizioni, tentare un dialogo è sembrata un’opzione più realistica e praticabile. L’unica forse che agli strateghi americani era rimasta a disposizione.

C’è forse una speranza che la via del dialogo conduca anche a Teheran? Non possiamo escluderlo, a giudicare almeno da quanto ha dichiarato Pompeo domenica. “Il presidente ha detto che se possiamo far cambiare tutto questo, se possiamo convincere la leadership iraniana a fare la decisione strategica di assicurare anzitutto il proprio benessere e quello del proprio popolo, allora siamo pronti ad avere una conversazione e discutere su come procedere”.

Insomma, prosegue Pompeo, se “ci fossero cambiamenti dimostrabili, tangibili, irreversibili nel regime iraniano”, l’approccio americano potrebbe mutare. Tutto dipende naturalmente da quali cambiamenti gli ayatollah sono disposti ad incoraggiare. Quelli che porterebbero alla loro caduta, senz’altro no. Né è immaginabile una resa senza condizioni alle dodici richieste poste da Pompeo ad aprile.

È più facile pensare, invece, ad un’intesa su singoli dossier, a cominciare da quello siriano. La guerra civile lì sta per concludersi con la vittoria del presidente Bashar al-Assad, propiziata dall’intervento di Mosca, dei Guardiani della Rivoluzione islamica e dalle decine di migliaia di miliziani sciiti inquadrati da Teheran. In Siria, tuttavia, sono presenti anche gli americani, sebbene in una zona diversa del paese. La convivenza dei soldati americani e iraniani sotto lo stesso cielo è, alla lunga, insostenibile. Ciò che è peggio, americani e iraniani potrebbero trovarsi coinvolto in un nuovo conflitto, scatenato questa volta da Israele per il quale la presenza iraniana in Siria rappresenta una linea rossa.

A mediare tra Israele e Teheran ci sta pensando al momento, non senza difficoltà, Vladimir Putin. Se anche Washington decidesse di esercitare la propria influenza – e questo, in fin dei conti, era uno degli obiettivi del summit di Helsinki tra il capo del Cremlino e quello della Casa Bianca – ne potrebbe scaturire un riassetto complessivo delle forze e degli equilibri in Siria che rappresenterebbe un buon viatico per la conclusione delle ostilità.

È tutt’altro che scontato, naturalmente, che l’Iran acconsenta volontariamente ad abbandonare la Siria, tassello fondamentale del suo disegno di egemonizzazione del Medio Oriente. Ma di fronte alla pressione convergente delle due maggiori potenze mondiali, sarà difficile per Teheran far finta di nulla.

La guerra di parole di questa domenica tra Stati Uniti e Iran rappresenta solo l’ultimo capitolo di una quarantennale storia di tensioni e dispetti. Una storia di cui l’amministrazione Trump vorrebbe scrivere la parola fine. E non è detto che questa fine non scaturisca da un’intesa tra due paesi formalmente ostili ma cui converrebbe senz’altro collaborare.

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