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L’idea russa di un referendum in Ucraina viene bocciata dagli Usa. Ecco perché

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Alla fine ci ha pensato Garret Marquis, portavoce del Consiglio per la Sicurezza nazionale (Nsc), a chiarire del tutto la posizione americana sul dossier Ucraina: gli Accordi di Minsk sono il processo per risolvere la crisi del Donbass, e non includono nessun referendum, soprattutto non sarebbe possibile organizzarne uno per deliberare qualcosa in un territorio che al momento non è sotto il controllo di Kiev.

Questo significa che Washington torna sul solco condiviso con i partner europei fin dal febbraio 2015 (quando gli accordi di Minsk sono stati firmati tra Russia, Ucraina e separatisti, sotto l’egida di sistemi di controllo internazionali garantiti dall’Ue). Ma soprattutto respinge al mittente la proposta che Vladimir Putin ha detto di aver fatto a Donald Trump durante il faccia a faccia di Helsinki: un referendum, di questo parlava Marquis, per risolvere col voto la crisi nelle due province orientali filorusse, Donetsk e Luhansk, che già nel 2014 con un voto popolare alterato avevano dichiarato la propria autonomia, mai riconosciuta da Stati Uniti e Unione Europea proprio per via delle irregolarità elettorali (gli accordi di Minsk invece prevedono che prima i separatisti depongano le armi, riconsegnino il controllo del territorio a Kiev, che provvederà poi a legiferare su una maggiore autonomia: Putin invece vorrebbe che la gente decidesse se stare con l’Ucraina o meno, legittimando le mire, armate, dei separatisti, anche se pure lui evidentemente ha creduto poco alla bontà del voto già espresso qualche anno).

Il fatto che sia stato proprio il portavoce del Nsc a chiarire il commitment americano sull’Ucraina è piuttosto significativo, visto che è il suo capo, il consigliere John Bolton, a essere stato incaricato da Trump di organizzare un nuovo incontro con Putin, stavolta ospitato in autunno a Washington. Bolton è stato anche colui che ha curato ufficialmente il canale di contatto con i russi prima del vertice finlandese. Era andato a Mosca, dove era stato ricevuto in modo protocollare da Putin in persona, circondato dalla stuolo di tutti i suoi uomini più importanti tra quelli che si occupano delle relazioni estere russe

Bolton prima di andare in Russia era passato da due capitali importanti per quel che riguarda le relazioni statunitensi con Mosca: Londra e Roma. Gli inglesi in questo momento sono gli alleati più agguerrito contro i russi, per via del caso Skripal e un’equipe specializzata dell’Fbi sta collaborando senza troppa formalità nelle indagini in cui il governo britannico accusa i russi per aver cercato di eliminare l’ex spia traditrice. Gli italiani invece guidano il gruppo di coloro che sono lanciati in una riqualificazione all’acqua di rosse per la Russia: due giorni fa il Washington Post ha pubblicato un’intervista in cui il vicepremier leghista del governo gialloverde si sperticava in una serie di ricostruzioni sulla vicenda ucraina che sembravano uscite da organi di propaganda del Cremlino tipo Sputnik, però alla fine Roma alla prova più concreta ha risposto in modo corale con l’Europa e con la Russia, votando per proseguire con le sanzioni post-Ucraina anche se il presidente del Consiglio aveva dichiarato che forse era il caso di eliminarle.

Tra le dichiarazioni di Giuseppe Conte durante la richiesta di fiducia al Senato e il voto favorevole sulle sanzioni al Consiglio europeo però c’era stata proprio la visita romana di Bolton. Fonti governative italiane raccontavano che il consigliere americano aveva spiegato agli italiani che Washington vuol gestire personalmente la pratica che riguarda i contatti con la Russia, e non gradisce scatti in avanti scomposti. Ieri è stato il portavoce di Bolton a precisare che le relazioni con Putin possono pure andare avanti (sebbene i funzionari americani temono che questa personal diplomacy possa agevolare troppo Putin), ma l’amministrazione non ha intenzione di farsi fregare, normalizzando anche il presidente e il suo tortuoso fall out del vertice finlandese.

Venerdi ci ha pensato anche il Pentagono ad assestare la linea: “La Russia dovrebbe subire conseguenze per il suo comportamento aggressivo e destabilizzante e la sua occupazione illegale dell’Ucraina”, ha detto in una nota il segretario alla Difesa Jim Mattis, mentre annunciava un sostentamento da 200 milioni di dollari per aiutare Kiev contro i ribelli. Una posizione secca è stata presa anche dal dipartimento di Stato, il cui segretario ieri ha ricordato che la Russia è ancora una minaccia.

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