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Fake news, basta la parola. Le accuse di Trump ai media (e viceversa)

Dice in un tweet il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che i “fake-news media”, come chiama lui tutti quelli che fanno della sua azione di governo una copertura critica quando serve, lo usano. Calcano, spiega, sul fatto che io dico che i giornalisti siano nemici della gente perché vorrebbero mettermi la gente contro: e invece “è vero” questo loro ruolo, aggiunge, e scoprendo quel che rappresentano, prosegue, ho fatto un gran servizio ai cittadini: i media possono causare “divisioni e sfiducia”, pure una guerra, sono “pericolosi e malati”.

Il gioco di gestire le informazioni, anche alterate o false (ora si chiamiamo fake news), a proprio interesse è classico della propaganda. Ma quel che dice il presidente a proposito della percezione dei cittadini statunitensi non è vero in senso assoluto. O almeno: non lo sembra leggendo certi dati, anche se lo sembra un po’ di più bazzicando certi consessi. Vediamo.

Secondo una ricerca dell’Economist, la fiducia nei media mainstream negli Stati Uniti è aumentata, nonostante il presidente Trump, la persona più importante del paese, spesso costruisca pubblicamente un pensiero negativo contro il giornalismo – almeno quello non asservito. La rivista sottolinea che quel dato aumenta “anche tra i repubblicani”: ed è una precisazione che si rende necessaria perché non solo Trump è repubblicano, ma la sua stessa candidatura nasce da un clima complottista, anti-establishment, anti-mainstream, vomitato contro i media, creato proprio da diversi esponenti del partito repubblicano per combattere le due amministrazioni democratiche Obama.

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Secondo i dati della società di analisi inglese YouGov, a cui l’Economist ha affidato lo studio, la fiducia dei cittadini americani nel New York Times e nel Washington Post, i due giornali più bersagliati dal presidente Trump (anche perché sono i più forti), è cresciuta – con ricche revenue per quelli e altri giornali, che hanno ripreso a vendere parecchio (il Nyt ha chiuso lo scorso anno superando il miliardo di dollari di fatturato da abbonati digitali).

E un aumento della fiducia nei media in generale, e nello specifico nel Nyt e nel WaPo è stato registrato anche tra coloro che si erano dichiaratamente detti sostenitori di Trump (non solo repubblicani, specificazione necessaria perché si tratta sovente di categorie e spettri distinguibili).

Mercoledì le Nazioni Unite hanno diffuso online un report in cui il presidente Trump veniva condannato per “i ripetuti attacchi alla stampa libera”: “I suoi attacchi sono strategici, progettati per minare la fiducia nei report e sollevare dubbi su fatti verificabili”, hanno scritto i rappresentanti dell’Onu e della Commissione interamericana per i diritti umani. Sull’ultimo numero dell’Economist c’era anche una denuncia simile, ma con target diverso: i regimi illiberali, diceva il più importante settimanale del mondo, stanno bloccando la diffusione della stampa indipendente in diversi stati; si parlava di “crollo globale di libertà di stampa” – concetto più ampio.

A fine giugno, Milo Yannopoulos, pericoloso arringapòpolo dell’alt-right americana (corrente politico-culturale che ha dimostrato di supportare Trump), ha inviato ad alcuni reporter – per esempio Davis Richardson del New York Observer – un messaggio: “Non vedo l’ora di vedere ronde di vigilanti che sparano a vista ai giornalisti”. Pochi giorni dopo un tipo è entrato nella redazione del Capital Gazette, quotidiano di Annapolis, Maryland, con un fucile a pompa e ha ucciso a sangue freddo cinque giornalisti.

Si trattava in quel caso di una vicenda specifica e contingentata, ma il clima aiuta. Ed è innegabile che Trump sia stato finora un alimentatore di questo genere di odio, indirizzato contro tutti coloro che danno della sua presidenza una copertura non monotòna positiva. Una decina di giorni fa era toccato proprio al proprietario del New York Times ricordare pubblicamente (e prima privatamente) al presidente il valore della stampa libera e il rischio che correva nel prendere certe derive. Ma non sembra troppo interessato, Trump. Per esempio, giovedì sera, in un altro rally elettorale in Pennsylvania, ha chiesto ai suoi supporter di non ascoltare i giornalisti perché sono “pericolosi” e costruiscono sempre notizie alterate.

“Sarebbe una buona cosa se tu affermassi proprio qui, in questo briefing, che la stampa, le persone che sono riunite in questa stanza adesso, facendo il loro lavoro ogni giorno, facendo domande a funzionari come quelle a cui hai risposto, non sono il nemico del popolo. Penso che lo meritiamo”. Mercoledì, mentre la Press Secretary americana, Sarah Sanders Huckabee, conduceva la sua conferenza stampa – a fianco a lei c’era il gota della National Security americana per parlare di interferenze russe: vicenda che si incastra con i media e quel clima contro –, il corrispondente dalla Casa Bianca della CNN, Jim Acosta, le ha rivolto con tono secco questa richiesta.

Il riferimento di Acosta era diretto a un tweet in cui il presidente Donald Trump era tornato a definire i giornalisti come “nemici del popolo”. Nel tweet il presidente si riferiva a una dichiarazione fatta dalla primogenita Ivanka durante un’evento organizzato dal sito Axios: alla figlia del presidente le era stato chiesto se fosse d’accordo con il padre sul definire i giornalisti “enemies of the people“, come il Prez aveva già fatto diverse volte, e lei aveva risposto di non avvertire attorno a sé questa situazione – poi il tweet, in cui il presidente ha detto che la risposta data da Ivanka era giusta, ma sono “i fake news media, che sono la percentuale maggiore” ad essere “i nemici della gente”.

Acosta non è nuovo a certi battibecchi: qualche settimana fa, a Londra, il presidente non volle sentire la sua domanda durante la conferenza stampa con la premier inglese accusandolo di essere il corrispondente di un media che scrive solo notizie false. Pochi giorni fa, a Tampa, durante un raduno molto acceso della compagna elettorale trumpiana, un gruppo di fan del presidente ha iniziato a disturbarlo mentre era in diretta televisiva: “CNN Fuck!“, cantavano in coro contro Acosta. Spesso finisce vittima degli strali dei giornalisti trumpers, tipo Sean Hannity di Fox News, che da poco lo ha definito “un partigiano liberal” sempre pronto ad attaccare il presidente.

Un veterano del genere, insomma. In molti sostengono che sia una sorta di eroe contemporaneo del Primo emendamento (quello sulla libertà di stampa), altri lo ritengono un po’ esibizionista ed egotico. Mercoledì, dopo la domanda-blitz a Sanders, la portavoce è sembrata piuttosto innervosita, ha provato a deviare, ma poi ha ricordato di finire lei stessa in continuazione sotto la scure dei giornalisti che spesso incitano alla rabbia. E non ha smentito le parole del presidente (ossia non ha detto che, no, i giornalisti non sono i nemici della gente). Acosta ha insistito, ma niente. Alcuni tra i corrispondenti presenti hanno seguito con interesse lo scambio di battute, altri sono sembrati visibilmente scocciati.

(Foto: screenshot, CNN online)

 

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