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La storia della spia irachena raccontata dal Nyt e l’importanza di certa stampa

Mezzo mondo sta parlando di un articolo formidabile in cui la giornalista Margaret Coker, capo dell’ufficio di Baghdad del New York Times, racconta l’esperienza di un agente dell’unità d’élite dell’intelligence irachena, la notissima Al Souqur, i Falconi, che è riuscito a infiltrarsi tra i ranghi dello Stato islamico in Iraq. Si tratta di uno dei pochi uomini al mondo in grado di aver portato a termine una missione complessa in modo inimmaginabile, dato che il Califfato ha un rapporto paranoico con la sicurezza, sospettando (a ragion veduta) infiltrazioni e sabotaggi — e forse è anche questo che lo ha reso la potenza che a cavallo del 2014-2016 è stato.

Storia da film o serie tv (e infatti ricorda il russo infiltrato dall’Fsb che aiuta il francese Malotru a liberarsi dalla prigionia dell’IS nella terza stagione di “Le Bureau”). Lavorando per 16 mesi, fino al gennaio 2017, da dietro le linee del nemico per la squadra operativa più elitaria dell’antiterrorismo iracheno (la Falcon Intelligence Cell è addestrata dagli americani con cui coopera fin dalla sua creazione, quando durante l’insirrezione sunnita del 2006 era stata messa insieme per dare la caccia ai capi dei gruppi sunniti) il capitano Harith al Sudani ha sabotato una cinquantina di attentati e ottenuto informazioni cruciali sulla catena interna del Califfo.

Il pezzo della Coker ci racconta che la superspia lavorava da Tarmiya, snodo autostradale nevralgico per Baghdad dove l’Is smistava attentatori kamikaze, e ci spiega — attraverso testimonianze di famigliari e colleghi — quello che Harith faceva (c’e addirittura un video mentre trasporta con un pick-up l’esplosivo per un attentato che poi i suoi colleghi avrebbero disinnescato come al solito), come si è preparato (per dire: era sciita e si andava a infiltrare in un gruppo nazista sunnita dove quelli del suo credo vengono considerati i peggiori nemici, da cui ripulire il mondo). Ci racconta l’umore, le sensazioni, le preoccupazioni del fratello — anche lui dei Falcons — prima dell’ultima missione fatale: quella in cui fu scoperto, catturato e poi probabilmente giustiziato. Ci racconta il dolore e la gloria della famiglia, si respirano gli odori della via di casa del capitano tappezzata dai suoi poster in segno d’onore e riconoscenza.

È insomma un documento eccezionale che forse più di ogni altra cosa ci spiega quanto sia importante il lavoro di raccolta informazioni, contatti, analisi, documentazione, approfondimento, di un certo genere di giornalismo. Lo Stato islamico è tutt’ora un’enorme problematica che grazie anche a uomini come Harith è stato almeno nella sua dimensione statuale, e grazie a giornalisti come quelli del Nyt è stato raccontato e documentato. Quegli stessi giornalisti che quasi quotidianamente vengono attaccati da facinorosi del saperlalunghismo infuocati dal clima che certi governi populisti accendono per propaganda contro la stampa nemica della gente, additando quella cosiddetta mainstream — che nel caso è diventato un assurdo modo dispregiativo per indicare quei media che, grazie al buon lavoro fatto per anni, si sono guadagnati posti di primo piano nel settore dell’informazione (chissà perché documenti del genere non si trovano pubblicati dai siti di quelli che s’innalzano a pensatori dissidenti gongolando invece tra le peggiori bufale in circolazione?).

 

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