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Urgenza immigrazione? Necessarie le (giuste) politiche del lavoro e industriali

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“È difficile tenere la porta sempre aperta. C’è anche la paura, ma noi non rimuoviamo la paura, l’affrontiamo…” sosteneva don Andrea Gallo riferendosi al tema quanto mai scottante dell’accoglienza. Un riferimento all’accoglienza oggi appare assai impopolare. Inutile negare che i populismi hanno inferto un duro colpo ad essa cavalcando paure ma anche errori reali compiuti in questi anni. Ma di qui a dire che il miglior antidoto ai timori sia quello di negare un futuro da società multietnica ce ne corre. Troppe analisi ci invitano invece a ragionare sul come realizzarla. Esorcizzarla del resto non servirebbe a nulla. La realtà è spietata: secondo studi Bankitalia nel 2041 la popolazione italiana che lavorerà sarà inferiore a quella che invece non lo farà. È la marcia inarrestabile dell’invecchiamento e delle culle vuote. Mentre già oggi nel nostro Paese il 79% degli immigrati stranieri lavora superando il 63% degli italiani. Ci sono alternative? Una di esse, un aumento abnorme di produttività nel sistema economico, impensabile non può che scoraggiare dal l’inseguire ricette facili o propagandistiche. E basta guardarsi attorno del resto per comprendere che molti dei lavori che fanno girare l’economia reali parlano in buona parte straniero. Certo, oggi l’attenzione si concentra sui porti da chiudere come vuole Matteo Salvini “mediato” da Luigi Di Maio che chiede nuove regole europee per arrivare a un esito non dissimile. E fa scalpore la polemica sulle navi Ong che però richiama anche l’esigenza di una riflessione chiara e precisa sulle varie facce del volontariato e sulle modalità con le quali si snodano i viaggi della speranza di migliaia e migliaia di individui e famiglie, dal ruolo dei mercanti di uomini ad eventuali corresponsabilità occulte comprese.

In realtà, è stato detto più volte, questo è un problema interamente europeo ma che non può esaurirsi nel gestire più o meno furbescamente i propri egoismi nazionali bensì andando oltre con l’inserire in un nuovo progetto di Europa sociale anche quello della integrazione dell’immigrazione. Il guaio dell’Europa è che è rimasta un pigmeo politico. Se andiamo indietro nella storia ci accorgiamo che nella stessa area del Mediterraneo la Roma imperiale concesse la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’Impero sotto Caracalla, non un esempio di imperatore, con poche esclusioni, anche per rafforzare il potere imperiale, vale a dire l’autorità politica (e, come qualche storico disse, …fiscale). Eguali diritti e doveri ma governati da un unitario potere politico. Ed inoltre in nome di un solo ordinamento statuale che sanciva la coabitazione di varie religioni, culture, etnie, legittimandone le radici storiche e riducendo al minimo le rivolte nei confini.

Certo il terzo millennio è altra cosa. Ma il confronto fra Europa ed immigrazione sta assumendo il valore di una resa dei conti sulla stessa identità europea. E sulla qualità di alcuni suoi valori, da quello della democrazia a quello della solidarietà vera.

Ed è giusto rimarcare che nel nostro Paese, ma non solo, il nodo immigrazione si è ancor più aggrovigliato con un senso crescente, e spesso motivato, di insicurezza della gente. Anche il riformismo nostrano ha colpevolmente sottovalutato questo aspetto. Non si trattava di acconsentire alla tentazione di generalizzare la tendenza a delinquere per definire il fenomeno immigratorio, bensì di ribadire che la legalità non era un valore di destra, che essa doveva garantire effettivamente la nostra popolazione (come ovviamente gli immigrati onesti). Così come molto di più si doveva fare contrastando l’utilizzo da parte delle mafie del lavoro immigrato con tutte le implicazioni negative sul territorio, dalla concorrenza sleale al lavoro nero al proliferare di reati che hanno inquinato la vita economica e sottratto il territorio al controllo delle Istituzioni. Il malessere, vastissimo fino a diventare protesta inarrestabile, che ne è seguito ha finito con l’impedire perfino riflessioni più realistiche sul fenomeno.

Il movimento sindacale in questo difficile contesto può svolgere un ruolo. Ad esempio può fare molto nel contribuire a rendere effettivo il bilanciamento dei diritti fra chi è accolto e chi accoglie. Fin dalle dinamiche che regolano la contrattazione. Non solo: va rimessa al centro della discussione, la tematica della integrazione che è in prospettiva la vera sfida da affrontare. Integrare per avere nuovi cittadini. Integrare per avere nuovi lavoratori con tutele che non ne offendano la dignità umana. Integrare per far convivere culture diverse senza mortificare le nostre radici e le nostre convinzioni che sono parte nobile della civiltà occidentale. Ma soprattutto si deve fare in modo di uscire da questo clima emergenziale che impedisce di rimettere con i piedi per terra i problemi che abbiamo di fronte.

Il che vuol dire saper contrastare uno dei filoni più aggressivi dei sovranismi in circolazione con proposte sulle quali far discutere, sapendo che non sarà un compito agevole. Eppure dobbiamo uscire da questo vortice di toni accesi e di confusione sui vari aspetti delle ondate migratorie che al dunque acuiscono le divisioni, ma non sono utilizzabili per una vera svolta che sia utile per il futuro che ci aspetta. In queste settimane l’Europa calcisticamente parlando è tornata regina. In buona parte lo deve a squadre…multietniche. Lo sport non di rado indica la strada. Certo ci vuole coraggio. Coraggio europeo innanzitutto, tenendo conto che in Europa esiste un tessuto sindacale e di riformismo politico che può dare certamente di più di quello che finora si e’…materializzato. Ed anche da noi è necessario agire per ricreare le condizioni fra la gente e nelle famiglie di un ritorno più riflessivo ad una comprensione meno… lapidaria dell’immigrazione che non è un tema da élite, ma da popolo che non vuol rinunciare alla sua umanità nella sicurezza.

Non aiutano certe uscite, però come quella del Presidente dell’Inps Tito Boeri che mette in guardia dal respingere gli immigrati, indispensabili per avere i contributi necessari a mantenere in equilibrio i conti previdenziali. Basterebbe a questo proposito far emergere un poco di più di lavoro nero. Ma il punto è un altro: la priorità, per tutti, resta quella di creare lavoro, lavoro buono, circuiti di lavoro stabili nel tempo. Far arrivare immigrati, anche con professionalità, in un Paese che rasenta la stagnazione e che è diventato il regno della precarietà finisce per diventare una contraddizione in termini, con margini elevati di pericolosità. Prima occorre creare nuovo lavoro, non si può sfuggire a questa priorità che, fra l’altro attenuerebbe la reazione di coloro che vedono negli immigrati dei “ladri” di lavoro a scapito dei propri figli. E qui tornano in ballo le politiche attive del lavoro, politiche industriali forti ed innovative, un ruolo dello Stato non da gendarme occhiuto ma da promotore di crescita. E su questo versante noi dobbiamo esserci.

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