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La (non) scelta di Malagò per le Olimpiadi che delude Appendino e Sala

Giovanni Malagò

Non lamentiamoci se all’estero spesso ironizzano su di noi, sui nostri bizantinismi, sull’atavica incapacità italiana di decidere. E di andare fino in fondo. Non è sempre vero, anzi. Ogni tanto, però, sembra che il nostro Paese si impegni a confermare i più fastidiosi preconcetti. La vicenda delle Olimpiadi invernali del 2026 è emblematica: per gestire un inconsueto affollamento di candidature, tutto sommato sorprendenti se pensiamo allo sconcertante naufragio di Roma 2024, il Coni ha deciso di non decidere.

Il numero 1 dello sport italiano, Giovanni Malagò, parla di scelta innovativa e coraggiosa, capace di sorprendere positivamente il Comitato Olimpico Internazionale, al punto da ottenere una fondamentale deroga al principio della singola città-candidata. Posizione comprensibile la sua, visto che si è scelto di non scontentare nessuno e di puntare tutto su un italianissimo gioco di equilibri. È la politica del bilancino, il manuale Cencelli applicato alla corsa olimpica.

La maggioranza gialloverde ottiene i 2/3 di questa candidatura unitaria, con un teorico 50%, fra la Torino pentastellata e il Veneto leghista, attraverso la perla delle Dolomiti, Cortina. Il restante terzo all’opposizione, con la Milano amministrata dal centrosinistra. Un po’ come le reti Rai ai tempi del pentapartito. Sarà un caso, ma il governo si è affrettato a benedire l’invenzione del Coni – perché di questo si tratta, un escamotage – sottolineando, anzi, che l’appoggio sarà garantito solo in caso di perdurante accordo, fra le due città e il centro bellunese.

Ovviamente, caso non è: la soluzione votata al Coni è stata benedetta dal sottosegretario Giorgetti a tempo di record, spianando l’incredulità e la delusione delle amministrazioni comunali di Torino e Milano. L’Olimpiade si farà con il manuale Cencelli o ripassare alla prossima, cioè mai. È bene non dimenticare che siamo reduci dalla figuraccia della fuga dalla più che probabile vittoria con Roma e faremmo fatica a raccogliere ancora credibilità internazionale, dopo un’ulteriore rinuncia.

Un grande evento funziona, se c’è una mano ferma a guidarlo, attraverso un’organizzazione ferrea e dalle spalle coperte. Chiedersi se Italia 2026 (anche il nome della candidatura ad oggi è un mistero e non sarà facile sciogliere questo nodo simbolico) potrà contare su tutto questo non è ozioso. Come non è professione di pessimismo interrogarsi se si possa lavorare con il necessario entusiasmo, partendo dall’attuale atteggiamento di Chiara Appendino e Beppe Sala. Nel voler accontentare tutti, si sta scontentando moltissimi, con un effetto collaterale da non sottovalutare: l’atteggiamento della pubblica opinione. Città poco coinvolte, se non disilluse, sopporteranno malissimo organizzazione, lavori, attesa e – figurarsi – inevitabili spese. Perché non c’è grande evento, non raccontiamoci balle, senza investimenti. Il problema è spendere bene, far sentire ai cittadini l’utilità presente e futura di ciò che si sta facendo. Avevamo un’occasione strategica, potendo sfruttare la memoria fresca e freschissima di Torino 2006 e di Expo 2015, due eventi detestati prima e amatissimi poi.

Abbiamo scelto di non scegliere, di non mostrare quel coraggio che trasformò le polemiche pre olimpiche ed esposizione universale in entusiasmo popolare e orgoglio nazionale.

Imboccata questa strada, però, ora ci si muova di conseguenza: si lavori per recuperare le amministrazioni, le si ascolti, le si coinvolga, possibilmente non sulla base del Cencelli. Il sindaco di Milano Beppe Sala, con la caratura internazionale e l’esperienza sul campo acquisita grazie a Expo, può e deve essere un valore aggiunto della corsa italiana. Questo non significa boicottare niente e nessuno, ma riconoscere le differenze ed esaltare le diverse qualità delle aree coinvolte.

Uno non vale sempre uno, se si vuole gareggiare per vincere.

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